Ad oltre venti anni dalla promulgazione della Legge 13.04.1988 n.117 che ridisciplinava la materia della responsabilità civile per i danni arrecati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie, è ormai amplissima la pubblicistica che ha esaminato, per lo più criticamente, l’impianto normativo scaturito dalla riforma legislativa.
Le valutazioni al riguardo sono note e rievocarle sarebbe meramente replicativo. Può invece essere utile esaminare l’interpretazione degli artt. 2 e 3 della Legge cit. fornita dalla Giurisprudenza di merito e valutare, sia pure per brevi cenni, le implicazioni che ne derivano nel quadro sistematico del sistema processuale vigente.
Su questo piano d’analisi, merita una segnalazione la motivazione del decreto con cui il Tribunale di Campobasso (decreto del 19/04/2001, dep. 26/04/2001) dichiarava la inammissibilità (così precludendo anche la cognizione di merito) di domanda risarcitoria, affermando il principio per cui : <>.
Secondo il Tribunale di Campobasso, dunque, sarebbe precluso l’esercizio dell’azione civile per danno da reato non solo nei confronti diretti del Magistrato ma, finanche, nei confronti dello Stato poiché, a parere del prefato Giudice, tale ultima azione risulterebbe consentita solo a seguito del previo esercizio, da parte dell’A.G., dell’azione penale nei confronti del magistrato-persona fisica.
Una tale impostazione non trova alcun conforto nel testo della Legge n. 117/88 che, piuttosto, impedisce ( ) l’esperimento dell’azione civile diretta nei confronti del magistrato stabilendo la responsabilità dello Stato per i danni derivanti dall’attività giudiziaria ma che non prevede, come ritenuto dal Tribunale di Campobasso, l’improcedibilità della domanda risarcitoria verso lo Stato ove non sia preceduta da un accertamento di responsabilità in sede penale.
Difatti, dandosi seguito all’indicazione recepita dall’ordinanza in commento, ne conseguirebbe che le ragioni del cittadino, già sottoposte al “filtro” congegnato dalla L.n.117/1988, finiscono con l’essere confinate in un vicolo cieco per la combinazione coordinata di meccanismi giurisprudenziali che (di fatto se non anche manifestamente) lo riducono a mero questuante dell’elevazione di imputazione penale facendo dipendere la procedibilità dell’azione civile dalla determinazione del Pubblico Ministero sull’esercizio o meno dell’azione penale.
È noto che il provvedimento di archiviazione del procedimento penale scaturito dalla eventuale denuncia sporta da privato non sia suscettibile di alcuna effettiva forma di (sia detto lato sensu ed in accezione meramente atecnica) impugnazione essendo ammissibile solo la proposizione di ricorso per Cassazione diretto a segnalare eventuali violazioni di ordine formale, apprezzabile alla stregua degli artt. 409 e 127 C.p.p. Tale preclusione ad ogni possibile rimedio di merito nei confronti dell’archiviazione è stata giustificata, sul piano razionale e sistematico, dall’affermazione dell’autonomia fra azione penle (tipicamente statuale) ed azione civile (facente capo al privato) e dal conseguente riconoscimento al cittadino del diritto, a fronte dell’archiviazione, di agire comunque al cospetto della giurisdizione civile potendo, perciò, in quella sede far valere i diritti personali sacrificati dalla condotta che si ritiene penalmente rilevante. La in-azione penale, dunque, non comprometterebbe, in questo quadro sistemico, alcuna posizione giuridica significativa del privato essendo a questi comunque concesso di adìre il Tribunale ordinario in funzione di giudice civile.
Se tale è la impostazione recepita dal nostro Ordinamento per spiegare la sostanziale non-appellabilità (sia detto, ovviamente, in termini atecnici) della determinazione con cui il G.I.P. accolga la richiesta, formulata dal P.M., di archiviare l’atto di promuovimento del procedimento penale, è allora evidente che la stessa spiegazione diventa frustrante quando, però (secondo l’interpretazione del Tribunale di Campobasso), intervenuta un’archiviazione in ordine alla denuncia che un privato abbia sporto con riferimento ad una condotta realizzatasi nell’esercizio dell’attività giudiziaria, da tanto scaturisca la preclusione non soltanto a poter agire personalmente nei confronti di quest’ultimo ma, altresì persino a poter agire in sede civile per ottenere il risarcimento del danno che si assuma patito.
Viene allora a crollare la giustificazione della preclusione ad un rimedio di merito sul provvedimento di archiviazione, quantomeno con riferimento alle determinazioni archiviatorie assunte in ordine alle condotte verificatesi nell’esercizio dell’attività giudiziaria e delle quali si lamentino la rilevanza penale e la causalità di un danno per il denunciante-persona offesa. In tal caso, difatti, ove si recepisse l’indicazione del Tribunale di Campobasso, il provvedimento di archiviazione perderebbe il carattere suo proprio di provvedimento non-opponibile ai terzi ma, per contro, assumerebbe il valore di una preclusione “senza appello” tanto del giudizio penale per l’accertamento della condotta, quanto anche della possibilità di dare ingresso alle ragioni civilistiche della persona offesa innanzi al Giudice civile.
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L’enunciazione del Tribunale di Campobasso e le sottese questioni giuridiche meriterebbero una più ampia ed argomentata illustrazione, incompatibile con lo spazio del presente intervento. In questa sede, allora, ci si può limitare ad osservare come la pronuncia richiamata si appalesi comunque esemplificativa di un generale atteggiamento di refrattarietà all’ammissione dell’azione civile, sia pure nei ristretti termini configurati dalla L. n. 117/1988.
Nel momento in cui la maggioranza politica dell’attuale Parlamento preannuncia riforma del sistema dell’Ordinamento giudiziario e nel momento in cui, per contro, si levano proteste nei confronti di un tale intendimento, è tempestivo ed opportuno chiedersi se la ricorrente domanda di modifiche al sistema giudiziario non consegua (anche) alla constatazione del fatto che l’assetto attuale non garantisca in termini di ragionevolezza neppure l’attuazione di disposizioni (quali quelle introdotte dalla L. n. 117/88) già restrittive e, in un certo senso, privilegianti; e non consegua, almeno per taluni profili, alla constatazione del fatto che proprio nel quadro dell’attuale organizzazione del Sistema Giudiziario si apprezza una accentuata propensione al restringimento dei meccanismi processuali predisposti in favore del cittadino, ivi compreso (sarebbe opportuno ribadirlo) del cittadino-magistrato per i casi (evidentemente rari ma non del tutto inesistenti) in cui anche questi versi nella difficile condizione di dover lamentare un danno patito nell’esercizio dell’attività giudiziaria e di voler ottenere, quantomeno, una sede giudiziale in cui ottenere una effettiva valutazione di merito in ordine alla stessa.