Di seguito si riporta uno scritto N. Zanon
(tratto da: “Il sistema costituzionale della magistratura”)
Capitolo I
Dove eravamo rimasti
Nel mio precedente libro dal titolo “La base della Democrazia” ho cercato di individuare i Principi fondamentali e fondanti della Democrazia.
Ovvero ho riflettuto su quegli elementi determinanti attorno ai quali e grazie ai quali è possibile dare un senso a tale parola.
Attraverso l’analisi di varie fonti (costituzione, singole sentenze della Consulta ecc.) ho stilato un elenco parziale e sicuramente non ufficiale dei cosiddetti Principi supremi del nostro ordinamento.
Riporto in sintesi l’elenco frutto delle mie ricerche:
– La forma della Repubblica
– L’unità dello Stato
– I diritti inviolabili dell’uomo (pensiero, parola, espressione ecc.)
– Laicità dello Stato
– Autonomia della magistratura (giudicante)
– Uguaglianza di fronte alla legge
– Diritto al voto
– Diritto alla difesa
– Limitazione dei poteri di ogni Istituzione (separazione dei poteri)
– Imprescindibilità della “procedura aggravata”
– Solidarietà sociale
– Diritto alla difesa (avocato)
– Segretezza della posta
Più in generale è possibile fare un elenco dei principi supremi che sottendono al concetto di Democrazia in astratto e validi per ogni sistema che si rifà a quella Istituzione:
– Diritto al voto (pluri-partitismo)
– Diritti inviolabili dell’uomo
– Laicità
– Uguaglianza di fronte alla legge
– Divisione dei poteri
Inoltre nel precedente testo ho messo in luce come, sotto certi punti di vista, tali Principi rappresentino anche i limiti alla revisione costituzionale.
Questi elementi infatti si pongono a paletti invalicabili per ogni modifica costituzionale.
Qualsiasi riforma della Carta infatti non può in alcun caso eccedere o violare i suddetti Principi ovvero i suddetti limiti.
In realtà nel libro in questione avevo approfondito il discorso trattando in maniera specifica anche un altro tema, quello dei “Principi assoluti”.
In estrema sintesi essi altro non sono se non tutta una serie di precetti filosofico-giuridici insiti nella Natura stessa, forgiati nel concetto stesso di Dignità umana, radicati nel codice ontologico dell’Essenza stessa di ogni essere umano.
Naturalmente non esiste un elenco ufficiale di tali Principi assoluti né esiste una fonte da cui trarre una qualche legittimità.
Tuttavia sappiamo che esistono e che sono inviolabili e lo sappiamo proprio perché abbiamo una Coscienza che ci permette di coglierli o individuarli.
Magari non in maniera specifica e precisa ma sicuramente per sommi capi si.
Cito alla lettera alcuni passi del libro in questione:
Per “diritti naturali”, “diritti assoluti” o “diritti inviolabili” dell’uomo sono da intendersi:
-diritto alla vita
-diritto all’integrità psicofisica
-diritto al nome e all’immagine
-libertà personale
-uguaglianza dei diritti
-inviolabilità del domicilio
-libertà di circolazione
-segretezza della corrispondenza
-libertà di manifestar e il proprio pensiero
-diritto alla proprietà
-diritto alla potestà genitoriale
-diritto alla sicurezza
-libertà di pensiero
-libertà di culto
-diritto alla successione
Tra l’altro, da questo punto di vista, è interessante proporre l’articolo 1 della Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948.
Art. 1
“Tutti gli esseri umani nascono liberi e sono eguali in dignità e diritti.
Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza.”
In realtà la validità e la giustezza di questi diritti non va dimostrata, discussa o dibattuta.
Non può essere sede di discussione o dubbio.
La loro validità è sottointesa, indiscutibile, dogmatica e assiomatica.
La loro giustezza va presa per scontata.
Tali principi-diritti universali inoltre si pongono rispetto ai vari ordinamenti e alle varie costituzioni in tre modalità:
Essi preesistono dal momento che sono sostanziati alla natura stessa, sono oggettivamente, universalmente ed eternamente giusti.
Sono parte integrante dalla esistenza stessa e quindi naturalmente pre-esistono alle costituzioni e agli ordinamenti stessi.
Essi consistono poiché si configurano come essenza stessa delle costituzioni e loro struttura portante.
Rappresentano l’anima degli ordinamenti statali e il cuore pulsante di qualsiasi democrazia degna di questo nome.
Essi sussistono visto che rimarranno tali anche in assenza di costituzioni o civiltà organizzate.
Il loro valore rimarrà immutato a prescindere da ogni trasformazione sociali, politica, economica, giuridica ecc.
I “Principi assoluti” (come li abbiamo chiamati) costituisco, da un certo punto di vista, una sorta di base filosofica su cui porre i “Principi supremi”.
Infine avevo individuato nel precedente elaborato anche un altro elemento di particolare interesse, connesso ai precedenti, ovvero quello dei famosi “Livelli costituzionali”.
Anche stavolta appare opportuno citare i frammenti più importanti del libro in questione affinché si possa chiarire il significato di tale concetto:
[…] a questo punto, alla luce di quanto detto sinora, è lecito supporre che esistano vari livelli costituzionali ovvero varie dimensioni della Costituzione su cui ogni principio o diritti va ad appoggiarsi o strutturarsi.
È possibile a mio parere individuare 3 livelli costituzionali, un quarto proverò ad abbozzarlo in seguito:
-Tre dimensioni:
a) I Principi semplici: sono le singole leggi o i singoli articoli presenti
presenti nelle diverse Costituzioni
b) I Principi supremi: sono i Principi che stanno alle base delle Costituzioni
e che in teoria non dovrebbero essere modificabili.
Sono quindi quei Principi fondanti e immodificabili
determinanti per le varie Carte.
c) I Principi sovra-costituzionali: sono quei Principi di Natura, indiscutibili,
veri e giusti per Principio.
E sono altresì quei principi che raggruppano
tutti i principi supremi di tutte le carte
costituzionali (quantomeno quelli occidentali
o democratici).
Il primo livello riguarda i Principi (non necessariamente supremi) che sono espressi dalle singole Costituzioni.
Rappresentano in un certo qual modo il loro “codice genetico”, la loro “carta d’identità”, la loro “mappatura concettuale”…
Grosso modo sono i singoli articoli di ogni Costituzione.
Singoli articoli o “gruppi di articoli”, a seconda del concetto che emanano e simboleggiano.
Il secondo livello si riferisce invece all’oggetto stesso nel nostro libro e del nostro dialogo, ai principi supremi per l’appunto.
Il cuore stesso della Costituzione e della Democrazia.
Il terzo livello riguarda infine quei Principi veri e giusti per natura, assoluti nella loro essenza e che risiedono in tutte le Costituzioni democratiche, in tutte le Costituzioni degne di questo nome.
Da un punto di vista teorico essi raggruppano tutti i principi supremi di tutte le costituzioni democraticamente concepite.
Sono una sorta di minimo comun denominatore universale, sono da un certo punto di vista il pilastro giuridico-filosofico naturale su cui si fonda ogni Carta Costituzionale.
Da tale estratto appare chiaro come esista una sorta di stratificazione di vari livelli all’apice della quale si pongono per l’appunto i “Principi assoluti” cioè quei Principi “giusti per natura”, “giusti per concetto”.
Sono quasi una sorta di assioma giuridico, un precetto non dimostrabile ma vero per convenzione.
La sua legittimità cioè si trova nella Coscienza di ognuno di noi.
Tutti questi elementi riportati alla memoria, determinanti nel concetto di Struttura della Democrazia, saranno poi utili nel proseguo del testo anche alla luce dell’analisi che intendo intraprendere ed svolgere.
Mentre nel prossimo capitolo invece cercherò di porre all’attenzione del lettore una seconda sfera della Democrazia: la dimensione della Qualità.
Capitolo II
Base e Qualità
I Principi supremi rappresentano quindi la struttura portante della Democrazia, il suo cuore, il fulcro di tale sistema istituzionale.
Essi rappresentano la conditio sine qua non affinché sia lecito e legittimo parlare di Democrazia, sono per l’appunto la base della Democrazia.
Tuttavia esiste anche una seconda dimensione determinante nella costituzione di tale concetto: la dimensione della Qualità.
La Qualità della Democrazia può essere definita come il livello di benessere che i cittadini raggiungono all’interno di tale sistema, il livello di benessere che essa riesce ad offrire e garantire.
La Qualità può essere delineata inoltre come il livello di efficienza che la Democrazia è in grado di fornire alle persone che ne fanno parte.
La Qualità di una democrazia è infine determinata dalla capacità di far sviluppare e progredire la società stessa che essa amministra.
Più la qualità sarà elevata e più il livello di benessere dei cittadini sarà alto, più la qualità sarà bassa o scadente e più la società sarà vittima di regresso, decadenza e povertà.
Esistono tuttavia delle differenze tra il concetto di Base e quello di Qualità.
Il primo elemento rappresenta le fondamenta della Democrazia, la struttura portante, il secondo ne simboleggia il modo d’essere, il livello di efficienza con cui essa si rapporta ai cittadini.
Il primo è determinato da elementi molto precisi e giuridicamente concepiti, il secondo è più variabile e sfumato.
Il primo dipende essenzialmente da organi di garanzia (Costituzione, Consulta, Magistratura…), il secondo dipende invece da organi elettivi e di parte (parlamento, governo, comuni…).
La Base è in grado da sola di determinare l’esistenza di una Democrazia, il concetto di Qualità può in linea teorica essere applicato anche ad un sistema non-democratico.
La Base si configura come qualcosa di più determinante, essenziale, specifico mentre la Qualità appare come un quid più eterogeneo, multi sfaccettato e complesso.
Possiamo in sintesi esporre tali differenze in una semplice ed illuminante tabella riassuntiva:
Base Qualità
– struttura – modo d’essere
– elementi precisi – elementi variabili
– organi di garanzia – organi di parte
– democratico – non necessariamente D.
– essenziale – eterogeneo
Nello specifico è lecito individuare vari elementi costitutivi dalla Qualità.
Numerosi elementi cioè che contribuiscono nello specifico a configurare e determinare il livello di Qualità di una data Democrazia.
Tali micro-principi possono essere quindi chiamati “parametri” della Qualità e costituiscono tante piccole modalità attraverso cui comprendere l’efficienza di un sistema.
Ritengo sia opportuno individuare i seguenti elementi:
Parametri relativi alla Qualità della Democrazia
P. 1) efficienza del sistema scolastico
P. 2) informazione libera
P. 3) indipendenza della magistratura (inquirente)
P. 4) stato sociale (o welfare)
P. 5) legalità
P. 6) diritti (sociali o civili)
Ognuno di questi parametri fornisce una specifica modalità di efficienza della Democrazia.
Facciamo alcuni esempi.
– Se un sistema formativo (università, ricerca, scuola ecc.) è efficientissimo e all’avanguardia quel Paese beneficerà di classi dirigenti preparate, dinamiche, serie e competenti.
Beneficerà inoltre di una serie infinita di scoperte scientifiche, innovazioni, imprese di alto livello ecc.
– Se un sistema informativo (televisione, internet, stampa ecc.) è libero ed indipendente quel Paese avrà una cittadinanza informata e consapevole ed al tempo stesso una classe dirigente più incline a non abusare del suo potere.
– Se la magistratura nel suo complesso (giudicante ed inquirente) godrà di un alto livello di indipendenza sarà più facile combattere criminalità ed abusi del potere ed al tempo stesso tutelare i cittadini onesti.
– Se il sistema di welfare (pensioni, servizi, ammortizzatori sociali ecc.) è caratterizzato da grande efficienza i cittadini godranno di enormi benefici e tutele.
E così via per tutti i vari parametri…
Per semplificare possiamo stabilire, per convenzione, che i vari livelli dei parametri siano i seguenti:
Livello 0: qualità nulla
Livello 1: qualità bassa
Livello 2: qualità alta
Livello 3: qualità altissima
Esistono Paesi che hanno qualità alta (o altissima) su determinati parametri ma magari qualità bassa su altri.
Ogni parametro va giudicato a sé.
Tra l’altro non è detto che un sistema democratico debba necessariamente avere livelli sufficienti in tutti quei parametri… paradossalmente può anche averli bassi in tutti e sei i parametri e configurarsi egualmente come Democrazia.
Viceversa un sistema non-democratico (monarchia, dittatura, tirannide…) può al contrario presentare livelli alti in alcuni parametri.
Tuttavia ci sono specifici parametri che chiameremo parametri-base, i quali necessariamente prevedono un livello-zero nelle Dittature.
Questi sono i Parametri 2, 3, 5.
È facile intuire come una Dittatura non preveda al suo interno la benché minima libertà di stampa.
Così come è altrettanto facile capire come un sistema non-democratico controlli non solo la magistratura giudicante (violazione del Principio supremo) ma anche quella inquirente.
Anche la Legalità diventa praticamente inesistente in un sistema corrotto ed illegale per definizione.
Gli altri parametri invece possono teoricamente presentare un alto livello di qualità.
La Base quindi rappresenta una condizione necessaria mentre la Qualità una condizione sufficiente per la configurazione di un sistema democratico.
Capitolo III
Parametro 2
A questo punto vorrei soffermarmi in maniera specifica su un Parametro in particolare, quello relativo all’Indipendenza della Magistratura.
Sto parlando cioè del cosiddetto Parametro 2.
Ritengo opportuna una maggiore riflessione attorno a tale “parametro” per un motivo semplicissimo: è l’elemento su cui si determina il funzionamento dell’intero sistema, compresi gli altri parametri.
Come abbiamo avuto modo di ribadire più volte, nel testo attuale ed in quello precedente, una Democrazia o una società in generale trae la sua forza e la sua capacità di sviluppo dal rispetto delle regole (leggi, legalità, repressione del crimine, rispetto della Costituzione ecc.).
Più le regole sono rispettate e più la società si sviluppa, si fortifica e risulta sana.
Più le regole sono violate, indebolite e calpestate e più la società-democrazia si indebolisce, regredisce, si impoverisce ecc.
Tutti gli altri Parametri quindi derivano da questo super-Paramentro.
Più la magistratura è forte ed indipendente e più riuscirà a difendere le regole della società in cui opera, più essa sarà debole e controllata e più risulterà difficile far rispettare gli ordinamenti esistenti.
Una società forte è una società dove vi è un tasso di Legalità (Par. 5) alto e affinché si verifichi c’è bisogno di una magistrature il più possibile autonoma e capace di combattere crimine e corruzione.
Una Democrazia sviluppata è una Democrazia dove il sistema televisivo ed informativo (Par. 1) rispetta i canoni di pluralismo e veridicità delle notizia.
Naturalmente affinché vi sia tutto questo c’è bisogno di Pubblici Ministeri non condizionabili.
È da precisare che in questo contesto mi riferisco soprattutto alla magistratura inquirente, per il semplice motivo che l’indipendenza della giudicante è già tutelata e garantita come Principio supremo.
Personalmente ritengo che l’indipendenza del PM rappresenti non solo una meravigliosa risorsa contro il crimine ma al tempo stesso si configuri come uno straordinario antidito contro gli abusi del potere elevati ad illegalità.
Bisogna in questa sede prima di tutto comprendere in maniera precisa e completa cosa significhi “indipendenza” del Pubblico Ministero.
Il PM è indipendente ed autonomo nel momento in cui egli, nell’esercizio delle sue funzioni, non subisce il controllo di nessun altro potere diretto o indiretto.
Le funzioni del PM sono sostanzialmente su tre livelli:
a) il perseguimento dei reati (obbligatorietà dell’azione penale)
b) le modalità di indagini
c) la strategia processuale
– Obbligatorietà dell’azione penale
Nel primo caso il PM deve essere libero di perseguire tutti i reati di cui viene a conoscenza.
Non deve esistere cioè nessun potere che scelga quale reati perseguire e quali no.
– Controllo della polizia giudiziaria
Nel secondo caso il PM deve essere libero di svolgere le indagini come meglio ritiene opportuno.
Non deve esistere cioè nessun potere che decida in che modo fare le indagini o in che modo utilizzare la polizia giudiziaria.
– Possibilità di impugnazione delle sentenze di primo grado e libertà di chiedere al Giudice la condanna o l’assoluzione.
Nel terzo caso il PM deve essere libero di poter impugnare o meno la sentenza di primo grado qualora lo ritenga opportuno e parimenti deve essere altrettanto libero di poter chiedere lui stesso l’assoluzione qualora venga dimostrata l’innocenza dell’imputato.
L’assoluta autonomia ed indipendenza del PM sono quindi fondamentali per avere la garanzia che nessun potere esterno possa in qualche modo intromettersi nel corretto svolgimento dell’azione penale.
L’indipendenza della magistratura è la base imprescindibile nella efficienza della giustizia.
È grazie a tale presupposto che si è sicuri che vengano perseguiti tutti i reati e non solo alcuni (obbligatorietà dell’azione penale).
È grazie a tale presupposto che si ha la certezza che nessuno possa mai alterare l’andamento delle indagini (polizia giudiziaria posta sotto le dipendenze del PM).
È grazie a tale presupposto che si è sicuri che nessuno possa pilotare l’andamento del processo a carico di un x imputato (appellabilità delle sentenze ecc.).
Se la Magistratura inquirente fosse sottomessa o controllata da qualsiasi altro potere (governo, parlamento, polizia…) non potrebbe più perseguire tutti i reati ma solo alcuni… non potrebbe più fare indagini complete ma solo parziali ecc. ecc.
Da questo punto di vista la Costituzione italiana, guarda caso la migliore al mondo, è molto precisa e categorica.
Essa indica chiaramente questi punti in vari articoli:
Art. 101.
La giustizia è amministrata in nome del popolo.
I giudici sono soggetti soltanto alla legge.
Art. 104.
La magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere.
Il Consiglio superiore della magistratura è presieduto dal Presidente della Repubblica.
Ne fanno parte di diritto il primo presidente e il procuratore generale della Corte di cassazione.
Gli altri componenti sono eletti per due terzi da tutti i magistrati ordinari tra gli appartenenti alle varie categorie, e per un terzo dal Parlamento in seduta comune tra professori ordinari di università in materie giuridiche ed avvocati dopo quindici anni di esercizio.
Il Consiglio elegge un vice presidente fra i componenti designati dal Parlamento.
I membri elettivi del Consiglio durano in carica quattro anni e non sono immediatamente rieleggibili.
Non possono, finché sono in carica, essere iscritti negli albi professionali, né far parte del Parlamento o di un Consiglio regionale.
Art. 105.
Spettano al Consiglio superiore della magistratura, secondo le norme dell’ordinamento giudiziario, le assunzioni, le assegnazioni ed i trasferimenti, le promozioni e i provvedimenti disciplinari nei riguardi dei magistrati.
Art. 106.
Le nomine dei magistrati hanno luogo per concorso.
La legge sull’ordinamento giudiziario può ammettere la nomina, anche elettiva, di magistrati onorari per tutte le funzioni attribuite a giudici singoli.
Su designazione del Consiglio superiore della magistratura possono essere chiamati all’ufficio di consiglieri di cassazione, per meriti insigni, professori ordinari di università in materie giuridiche e avvocati che abbiano quindici anni d’esercizio e siano iscritti negli albi speciali per le giurisdizioni superiori.
Art. 107.
I magistrati sono inamovibili. Non possono essere dispensati o sospesi dal servizio né destinati ad altre sedi o funzioni se non in seguito a decisione del Consiglio superiore della magistratura, adottata o per i motivi e con le garanzie di difesa stabilite dall’ordinamento giudiziario o con il loro consenso.
Il Ministro della giustizia ha facoltà di promuovere l’azione disciplinare.
I magistrati si distinguono fra loro soltanto per diversità di funzioni.
Il pubblico ministero gode delle garanzie stabilite nei suoi riguardi dalle norme sull’ordinamento giudiziario.
Art. 109.
L’autorità giudiziaria dispone direttamente della polizia giudiziaria.
Art. 112.
Il Pubblico ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale.
Come è possibile constatare la Costituzione stessa prevede al suo interno tutte le garanzie necessarie alla tutela della Indipendenza della Magistratura.
Emblematici da questo punto di vista sono soprattutto gli articoli 104, 109 e 112.
Non è un caso quindi che l’Italia è forse l’unico Paese al mondo che preveda l’assoluta indipendenza della magistratura inquirente (quella Giudicante deve esserlo per forza pena la non sussistenza del principio democratico).
Tutte le altre Democrazie al mondo prevedono forme di controllo sui PM.
In Francia e Spagna i pubblici ministeri sono dipendenti dall’Esecutivo per legge, negli Stati Uniti i Procuratori sono elettivi quindi dipendono dai condizionamenti dell’opinione pubblica e così via…
Quindi l’unico Paese al mondo dove la magistratura inquirente gode della più assoluta autonomia è appunto l’Italia (forse anche il Portogallo).
Tale indipendenza va vista come un privilegio dei cittadini e dovrebbero essere quindi loro stessi i primi difensori di questa garanzia.
L’autonomia della Magistratura per questi motivi si configura come struttura portante del concetto stesso di Giustizia, come baluardo al crimine e agli abusi di potere e come assoluta garanzia di uguaglianza di fronte alla legge.
Tuttavia esiste un problema e sicuramente non trascurabile…
Mentre l’indipendenza dei Giudici (mag. Giudicante) è un Principio supremo e quindi è immodificabile l’indipendenza dei PM non risulta essere un Principio supremo.
Quindi tale autonomia si può cambiare o limitare.
È soggetta a possibili modificazioni costituzionali; non essendo tutelata da specifiche garanzie sovra-costituzionali può essere oggetto di limitazioni.
L’indipendenza del PM (mag. Inquirente), non essendo un Principio supremo può essere appunto modificata o ridotta, attraverso apposite e legittime procedure naturalmente.
Tanto è vero che l’unico Paese al mondo (forse assieme al Portogallo) in cui i PM godono della assoluta indipendenza è l’Italia.
Tutti gli altri Paesi al mondo infatti presentano delle forme di restrizione dell’autonomia della magistratura inquirente.
Esiste, in questo contesto, una particolare e specifica modalità legislativa che rischia fortemente di violare e limitare l’Indipendenza del Pm.
Sto parlando della famosa “separazione delle carriere”.
Questo sistema sarà oggetto di riflessione ed approfondimento nel prossimo capitolo.
Capitolo IV
La separazione delle carriere
Il principale rischio per l’indipendenza della magistratura inquirente è, come tutti sappiamo, la cosiddetta “separazione delle carriere” fra Giudice e Pm.
Cerchiamo di capire meglio di cosa stiamo parlando.
In Italia l’ordinamento vigente, garantito dalla Costituzione (art. 104), prevede che i Giudici ed i Pubblici Ministeri facciano parte di uno stesso ordine e quindi di una stessa carriera.
È grazie a questo principio che anche i Pubblici Ministeri beneficiano della stessa indipendenza dei Giudici.
Nessun governo potrà mai proibirgli di indagare su questo o quel reato, nessun ministro potrà mai imporgli una certa modalità di indagine e nessun Parlamento potrà mai suggerirgli una data strategia processuale.
Naturalmente tutto questo è garantito da un determinato contesto giuridico
di supporto: obbligatorietà dell’azione penale, dipendenza diretta sulla polizia giudiziaria ecc.
Essendo un “corpo unico” godono entrambi dei medesimi diritti e delle stesse garanzie e tutele.
Proprio perché fanno parte del medesimo ordinamento sono entrambi immuni da qualsiasi condizionamento o interferenza esterna.
Non solo, la “carriera unica” prevede anche un secondo vantaggio.
Se il Pubblico Ministero fa parte della stessa carriera dei Giudici cioè se anche egli cresce nella cultura della imparzialità sarà poi più facile per lui agire in maniera retta e coerente al proprio mandato.
Sarà più facile e naturale per lui dirigere le indagini seguendo la bussola dell’imparzialità e della terzietà, sarà più fisiologico per lui valutare una prova e la colpevolezza di un imputato in modo equo e incondizionato.
Se un Pubblico Ministero si forma nello stesso ordinamento del Giudice svilupperà inevitabilmente una mentalità devota alla ricerca della verità e non condizionata da facili ed inique condanne.
Finché quindi Giudici e PM faranno parte dello stesso ordine e della stessa carriera entrambi saranno educati alla cultura della imparzialità e della verità.
Il compito principale del Pubblico Ministero infatti non è quello di portare sotto processo più gente possibile o di condannare più imputati possibili ma quello di capire, in collaborazione col giudice, chi è il vero colpevole.
L’obiettivo del PM non è quello di assommare condanne sul curriculum ma di accertare la verità dell’accaduto e di porsi nei confronti di ogni imputato nella maniera più imparziale possibile
Verità ed Imparzialità devono essere le due parole d’ordine di ogni Pubblico Ministero così come di ogni Giudice
Da questo punto di vista la “carriera unica”, per certi versi, ha quasi un valore pedagogico.
Questo proprio perché tale condizione educa sin dai primi passi Giudici e Pm all’osservanza dei suddetti valori.
Il far parte di un medesimo ordinamento forma la mente dei Pubblici ministeri e la educa costantemente alla cultura della Verità e della Imparzialità.
Tra l’altro questo costituisce una straordinaria garanzia per i cittadini poiché essi sapranno di poter contare su un magistrato il cui fine non è quello di arrivare alla condanna ma quello di accertare al verità.
Infatti se un PM durante una ipotetica udienza preliminare si accorge che l’indagato è innocente sarà egli stesso, ancor prima dell’avvocato, a chiedere il proscioglimento.
Addirittura durante la fase dibattimentale (processo) il Pubblico ministero può, qualora sopraggiungano nuovi elementi, chiedere l’assoluzione dell’imputato, prima ancora del legale di parte.
Un imputato innocente godrà quindi di maggiori tutele e guarentigie.
Quindi se dovessimo riassumere i vantaggi della “carriera unica” potremmo così sintetizzarli:
– certezza dell’Indipendenza rispetto ad altri poteri dello Stato
– cultura dell’Imparzialità e della Verità
– maggiori garanzie e tutele per gli imputati
Naturalmente per i suddetti motivi occorrerebbe interrogarsi sulla funzione generale del Pubblico Ministero… occorrerebbe chiedersi se a questo punto sia legittimo configurarlo come “pubblica accusa”… occorrerebbe chiedersi se egli rappresenti veramente l’accusa nel contesto normativo italiano…
Dal mio punto di vista, all’interno dell’attuale sistema giuridico, il Pubblico ministero non rappresenta l’accusa ma semmai una più complessa ed articolata “funzione inquirente”.
Ovvero, a mio modesto avviso, il PM nell’esercizio dell’azione penale ha il compito non di rappresentare l’accusa (a prescindere) ma il compito di cercare di accertare la verità attraverso prove e testimonianze.
Comunque questo è un argomento sin troppo tecnico e delicato per poterlo affrontare organicamente in questa sede, mi limito quindi ad accennarlo e rimandarlo a persone molto più competenti di me.
Domandiamoci ora cosa potrebbe accadere se si separassero le due carriere…
Cerchiamo di capire quali sarebbero cioè le conseguenze di una ipotetica “separazione delle carriere”…
Cerchiamo quindi di capire a cosa andremmo incontro dinnanzi ad una simile eventualità.
Anzitutto ci sarebbero due ipotesi: il PM rimarrebbe indipendente da altri poteri oppure verrebbe controllato da governo, polizia o altro.
-Se si verificasse la prima ipotesi, caso remotissimo, il Pubblico Ministero rimarrebbe si autonomo ma con l’andar del tempo perderebbe la famosa cultura dell’imparzialità di cui abbiamo parlato fin ora.
Non solo, perderebbe di vista anche la via maestra della ricerca della verità e si appiattirebbe su un mero tentativo di accumulare condanne indiscriminate.
Nel giro di pochi anni verrebbe completamente diseducato al valore di imparzialità fondamentale per chi vuole fare questo lavoro e chiuderebbe gli occhi continuamente di fronte alla possibilità di cercare verità alternative o scomode.
Di conseguenza tutto ciò si configurerebbe come un danno enorme per gli imputati innocenti che si ritrovano sotto processo solo per fraintendimenti o errori.
Costoro perderebbero tutte quelle garanzie che invece ora hanno, garanzie scaturite dalla “unità delle carriere”.
-Se si verificasse la seconda ipotesi, diciamo con una percentuale del 90% , si avrebbero conseguenze anche peggiori.
Se il Pm venisse appunto sganciato dell’ordine dei Giudici e avesse una carriera a sé e si trovasse in una condizione giuridica di subalternità rispetto al governo questo causerebbe problemi enormi al sistema giustizia…
A quel punto l’obbligatorietà dell’azione penale verrebbe meno e sarebbe qualcun altro a decidere quali reati perseguire e quali no.
A quel punto la fase processuale/dibattimentale non sarebbe più gestita dal Pubblico ministero ma da qualche altro potere.
A quel punto la polizia giudiziaria verrebbe sganciata dal controllo del PM e farebbe le indagini sotto le direttive di qualcun altro o in maniera addirittura autonoma.
Naturalmente non è detto che si verifichino tutte le ipotesi sopra elencate… potrebbero verificarsi solo alcune di esse, oppure un numero maggiore, o quelle ma in modalità differente…
Si arriverebbe ad un sistema dove alcuni reati non verrebbero minimamente perseguiti e quindi dove alcune persone (colpevoli di reato) non sarebbero messi neanche a processo.
Una cosa comunque è certa: a quel punto, con la separazione delle carriere, verrebbe messo in forte discussione il principio di uguaglianza di fronte alla legge.
Non tanto sui “grandi diritti” (diritto al voto, diritti umani, accesso al lavoro ecc.) ma quanto invece nella logica penale.
Un sistema caratterizzato dalla assoluta indipendenza di tutta la Magistratura è garanzia di eguale trattamento di fronte a tutti i reati e dinnanzi a tutti gli imputati.
Un sistema invece dove opera una Magistratura sottomessa per legge ad altri poteri e vincolata da mille limiti non potrà mai garantire il medesimo trattamento per tutti i reati e tutti gli imputati.
Quindi nella “logica penale” la separazione delle carriere comporterebbe forti possibilità di un vulnus al Principio di uguaglianza di fronte alla legge.
Va da sé che, essendo l’Italia (forse accanto al Portogallo) l’unico Paese al mondo a godere dell’assoluta autonomia della magistratura inquirente l’Italia
è anche l’unica Nazione caratterizzata da un livello assoluto e completo di Eguaglianza dinnanzi alla legge.
Con la separazione delle carriere questo primato e questa condizione privilegiata andrebbero a perdersi.
Mi sento di citare in conclusione uno straordinario contributo su tale questione.
Vorrei sottoporre all’attenzione del lettore un monologo scritto e proposto da uno straordinario giornalista, un uomo che considero per svariati motivi il più grande intellettuale al mondo.
Sto parlando di un indimenticabile intervento di Marco Travaglio.
Questo testo rappresenta una magnifica e memorabile lectio magistralis sul tema in questione.
Più che un intervento giornalistico è una lezione filosofica
È una magistrale ed indimenticabile dimostrazione dei rischi e delle distorsioni che porterebbe la separazione delle carriere
(è da precisare che il passo citato in seguito è riportato in forma parziale e non del tutto letterale)
Monologo di M. Travaglio, Passaparola, 10 agosto 2010
“Pubblici ministeri al guinzaglio”
“[…] Esistono delle cose che vengono ripetute all’infinito e diventano
dei dogmi di fede anche se sono destituiti di ogni fondamento.
Anche perché non c’è nessuno che dice mai l’opposto.
Uno di questi è la separazione delle carriere.
È una proposta lanciata da L. G., ripresa da C. poi da D’A. e che torna
ciclicamente.
Si basa sulla convinzione che il PM debba fare sempre il PM che il
Giudice debba fare sempre il Giudice, per tutta la vita.
Cosa dicono i sostenitori della separazione: dicono che il PM deve
fare l’accusa e che il Giudice che è una figura terza si deve stagliare al
di sopra dell’una e dell’altra parte e deve decidere.
Quindi non può avere la stessa carriere del PM.
Se così fosse il Giudice dovrebbe sempre accontentare le richieste del
PM ma sappiamo tutti che non è così…
Ma le carriere devono essere unite perché la è l’unico modo affinché la
legge sia uguale per tutti.
Da questo punto di vista la Costituzione è perfetta.
Affinché ci sia l’uguaglianza di fronte alla legge devono essere
indipendenti sia il Giudice che il PM e ci deve essere l’obbligatorietà
dell’azione penale.
E quindi devono far parte della stessa carriere.
La C. de questo punto di vista è assolutamente armonica e perfetta.
E noi dobbiamo difendere quei principi Costituzionali perché
l’indipendenza della Magistratura è un privilegio dei cittadini.
Ma l’unità della carriera è molto importante perché in fondo il loro
mestiere non è poi così diverso… hanno solo due funzioni separate: uno
chiede e l’altro decide, uno propone e l’altro dispone, uno indaga e
l’altro giudica… ma hanno un obiettivo comune… questo obiettivo comune
si chiama la ricerca della verità, il PM la cerca e io Giudice la fissa, la
stabilisce ma il loro obiettivo è la Verità.
Il bravo PM non è quello che fa condannare più gente possibile ma quello
che fa condannare più colpevoli possibili, i veri colpevoli.
Quindi ci può essere un PM magnifico che non fa condannare mai nessuno
perché son tutti innocenti.
L’obiettivo del PM è l’accertamento della Verità… ecco perché devono far
parte della stessa carriera…
Noi separando le carriere creeremmo dei PM privi di verità ed imparzialità
creeremmo solo delle iene il cui interesse è sbattere in galera più gente
possibile indipendentemente se siano innocenti o colpevoli.
Il PM non è la pubblica accusa, non è vero che è la pubblica accusa.
L’avvocato dell’accusa non esiste in Italia e meno male che non esiste
perché il PM ha il dovere di chiedere la sua assoluzione, il PM è la prima
garanzia per l’imputato.
Un vero garantista vuole le carriere unite… un vero garantista odia la
separazione delle carriere.
E’ assurdo paragonare la figura del PM a quella dell’avvocato.
Perché l’avvocato deve difendere il cliente indipendentemente dal fatto che
sia innocente o colpevole il PM invece non deve accusarlo
indipendentemente dal fatto che sia i. o c. ma se scopre che è innocente lo
scagiona.
Perché? Perché NON è l’avvocato dell’accusa ma l’avvocato dello stato…
l’avvocato della Verità .
Se avremo le carriere separate ci saranno due possibilità: se il PM sarà
indipendente (difficile) diventerà una iena con il solo obiettivo di
condannare più gente possibile, se sarà sottomesso all’esecutivo addio
uguaglianza di fronte alla legge.
[…] qui c’è una raccomandazione del Consiglio d’Europa del 30 giugno
2000, che chiede agli Stati di fare come in Italia, gli stati ove il loro
ordinamento giudiziario lo consente, adottino misure per consentire alla
stessa persona di svolgere le funzioni di PM e poi di giudice e viceversa e
questo per la similarità e la complementarità delle due funzioni, quindi
non è vero che il resto d’Europa va in controtendenza, il resto d’Europa
va verso il modello italiano e l’Italia che può vantare una volta nella vita
di avere inventato qualcosa di buono, sta cercando da anni di abbandonare
questo sistema”.
Da questo testo è facile evincere come esistano enormi rischi relativi alla separazione delle carriere.
Rischi appunto derivanti da un lato dalla sottomissione del PM all’esecutivo (o altri poteri) e dall’altro da alcune distorsioni nella cultura giuridica del PM medesimo.
Travaglio inoltre mette benissimo in luce come la figura del Pubblico Ministero non si possa assolutamente mettere sullo stesso piano di quella dell’avvocato.
Mentre quest’ultimo infatti rappresenta sicuramente la difesa (difende l’imputato a prescindere) il Pm invece non rappresenta l’accusa (se per ipotesi dovesse scoprire che l’imputato è innocente chiede l’assoluzione).
L’avvocato rappresenta un interesse di parte (viene stipendiato dall’imputato) e quindi giustamente difende l’imputato a prescindere dalla sua innocenza o colpevolezza.
Il Pubblico Ministero invece rappresenta l’interesse della collettività, dello Stato.
Egli rappresenta l’interesse al disvelamento della verità e quindi non può in alcun modo essere posto sullo stesso piano dell’avvocato difensore.
Da questo punto di vista perdono pregio e validità tutte le argomentazioni di chi sostiene che la separazione delle carriere è necessaria per porre sullo stesso piano accusa e difesa.
La perfetta parità di accusa e difesa non ha senso proprio perché il Pm non rappresenta l’accusa.
Egli rappresenta la ricerca della Verità e l’interesse dello Stato.
Egli non è quindi l’avvocato dell’accusa ma l’Avvocato dello Stato.
Vorrei suggerire ora un altro celeberrimo contributo portato alla luce da Travaglio e che, se possibile, chiarisce ancor meglio la situazione e lo stato delle cose.
Monologo di M. Travaglio, Passaparola, 25 ottobre 2010
“Doppio brodo A.”
“[…] oggi capita spessissimo che la polizia vada da PM e
gli dica di arrestare questo o quest’altro ed il PM gli dice
no.
Perché oggi (a carriere unite) il PM è imperniato di cultura
dell’imparzialità.
Deve far arrestare i colpevoli… non uno pur che sia…
Il pubblico ministero deve cercare al Verità ed il Giudice
deve accertare la Verità.
Quindi fanno un mestiere complementare e quindi devono
rimanere nella stessa carriera perché la Verità viene fuori
solo se Pm e Giudice hanno nella testa il concetto e il
criterio della Verità e la bussola dell’Imparzialità.
[…] Se il Pubblico Ministero viene sganciato dalla cultura
dell’imparzialità e della verità diventerà una longa manus
delle forze dell’ordine… loro chiedono e lui concede.
E questo a tutto danno delle garanzie dei cittadini che
dovranno aspettare il Giudice per rimediare agli errori che
faranno assieme PM e polizia mentre oggi è il PM il primo
baluardo contro eventuali abusi.
[…] La logica è quella di separare le carriere e poi quella
di spolpare i poteri del PM”
È emblematico il passaggio in cui Travaglio afferma che Giudici e PM fanno parte di un “mestiere complementare e quindi devono rimanere nella stessa carriera perché la verità viene fuori solo se PM e Giudice hanno nella testa il concetto e il criterio della verità”.
Proprio per questo è inaccettabile che vengano separate le due carriere e che venga distorto tutto il sistema.
Inoltre Travaglio tocca ovviamente anche l’altra questione riguardante i poteri e l’autonomia del Pubblico Ministero.
E mette perfettamente in luce come tale procedura venga proposta ed inseguita solo ed unicamente per “la logica di separare le carriere e poi di spolpare i poteri del Pm”.
Come abbiamo detto più volte una simile ristrutturazione del sistema ha come obiettivo non quello di rendere più efficace il sistema stesso ma quello di mettere sotto controllo la magistratura (inquirente).
Ecco infine un ultimo contributo, sempre tratto da un intervento di Travaglio, che se possibile puntualizza ulteriormente il nocciolo della questione.
Monologo di M. Travaglio, Passaparola, 09 febbraio 2009
“La terza Repubblica”
“Se il Pubblico Ministero dovesse diventare avvocato dell’accusa
smetterebbe di essere un organo di garanzia che fa le indagine a
nostra tutela per scoprire se siamo innocenti o colpevoli e avremo
uno che ha il compito di accusarci anche se siamo innocenti…
sarà uno pagato a cottimo sulle condanne”
In questo caso si critica la dicitura stessa di “avvocato dell’accusa” poiché sarebbe assurdo trasformare il Pubblico Ministero in una sorta di persona pagata solo per assommare condanne anche di fronte alla manifesta innocenza dell’imputato.
Si snaturerebbe il concetto stesso di Magistratura.
E verrebbe distorto completamente il Principio stesso (tutelato da varie sentenze della Consulta) secondo cui il Pm ha prima di tutto il dovere di raccogliere tutte le prove della caso, sia contro l’imputo sia a favore.
Inoltre, cosa peggiore, con l’istituzione dell’Avvocato dell’accusa verrebbero meno tutta una serie di garanzie a tutela dell’imputo.
È anche per questo motivo che, come dice sempre Travaglio, i veri garantisti sono contrari alla separazione delle carriere.
Capitolo V
Una responsabilità pericolosa?
Vi è un ulteriore fattore di rischio per l’Autonomia della Magistratura che andremo ora ad analizzare.
In realtà questo è un pericolo più sottile, più ambiguo, più complesso, per certi versi più pervasivo.
Sto parlando della cosiddetta “responsabilità civile dei Giudici”.
Tale istituto giuridico non rappresenta un controllo diretto e formale sulla magistratura inquirente da parte in qualsivoglia potere.
Si configura invece come un fortissimo rischio di condizionamento dell’operato dei Giudici.
Detto in parole povere se un Magistrato, in questo caso sia giudicante che inquirente, commette un errore compromissorio dei diritti dell’imputo, egli è tenuto per legge a risarcire di tasca sua la vittima di tale errore.
Spesso anche con somme pesanti ed ingenti.
Supponiamo, ad esempio, che un PM chieda ed ottenga dal Gip (magistrato Inquirente il primo e Giudicante il secondo) l’arresto di un indagato che poi si rivelerà innocente.
In quel caso entrambi i Magistrati dovranno pagare in maniera diretta e di tasca loro il risarcimento per ingiusta detenzione.
Ora, in linea generale, si potrebbe dire che tale provvedimento è giusto e sensato.
Ma c’è un problema: l’errore può anche non essere stato commesso in maniera intenzionale, può essere semplicemente accidentale ed involontario (i Giudici son pur sempre essere umani…).
Nel nostro Paese fortunatamente esiste una sorta di forma particolare di Responsabilità Civile.
Tale ordinamento giuridico, introdotto all’indomani del Referendum del 1987 con la cosiddetta legge Vassalli (117/88), istituisce una modalità indiretta e parziale di responsabilità civile.
“Indiretta” perché la vittima di errore giudiziario si rifà sullo Stato e poi lo Stato a sua volta può rifarsi sul Giudice (per un terzo del suo stipendio).
“Parziale” poiché la mappatura degli errori è limitata e circoscritta a solo due casi: dolo e colpa grave.
Ora immaginiamo per un attimo cosa potrebbe accadere se il Principio di responsabilità civile fosse più esteso ed illimitato…
Immaginiamo cosa potrebbe accadere se i Magistrati fossero ritenuti per legge responsabili per qualsiasi errore e non solo per dolo e colpa grave…
Immaginiamo le pressioni ed i condizionamenti mentali che tutto ciò potrebbe produrre nei Giudici…
Inevitabilmente, per evitare il rischio di pagare ti tasca propria (anche somme alte) i Magistrati spesso e volentieri gireranno gli occhi di fronte ad indagini o inchieste complesse o pericolose.
Inevitabilmente i Giudici, durante il processo tenderanno a dar ragione ai più ricchi e potenti per paura di essere portati in causa alla minima mancanza o al minimo errore procedurale
Insomma, inevitabilmente, ci saranno innumerevoli ed enormi rischi che l’operato della magistratura possa essere distorto e indebolito da tali pressioni o condizionamenti.
I Giudici ed i Pm non potranno più lavorare con serenità e con le dovute garanzie.
In sintesi è possibile affermare che introdurre una forma illimitata e diretta di Responsabilità civile delle Toghe, pur non rappresentando una modalità di controllo formale, rischia di incidere e non poco sulla la loro indipendenza ed imparzialità.
Anche in questo caso è lecito e doveroso illustrare la questione con alcune citazioni ed approfondenti di un certo spessore.
Articolo di Travaglio, “Il Fatto quotidiano”, 30 giugno 2011
“Lodo A.”
“[…] Ma c’è in cantiere un’altra norma che svuoterà ancor
di più le casse dello Stato: quella sulla responsabilità civile
dei magistrati, gabellata da toccasana per far pagare alle toghe
i loro errori. Il che già avviene oggi, ma nessuno lo sa.
Se il magistrato commette reati, finisce in galera come tutti gli
altri cittadini (parlamentari esclusi).
In caso di infrazioni disciplinari, viene punito dal Csm.
In caso di errore giudiziario, lo Stato risarcisce la vittima, poi si
rivale su di lui se l’errore è frutto di “dolo” o “colpa grave”: lo
prevede la legge Vassalli del 1988, varata dal pentapartito dopo
il referendum del 1987.
Non sempre infatti l’imputato assolto è vittima di errore giudiziario.
Anzi è molto più frequente il contrario: gli indizi e le prove iniziali
giustificano l’indagine, l’arresto, la richiesta di rinvio a giudizio,
magari anche la condanna in primo e secondo grado, ma non quella
definitiva.
O perché è cambiata la legge, o è stato abolito il reato, o sono variate
le regole di valutazione della prova, o più semplicemente l’ultimo
giudice ha valutato il caso con criteri diversi da quelli dei
predecessori, ritenendo insufficienti le prove che gli altri avevano
giudicato bastanti.
Per convenzione, l’ultima sentenza è quella buona; nella realtà, può
darsi benissimo che fossero giuste la prima o la seconda.
Non sempre chi risulta innocente per la legge lo è anche nella realtà.
L’errore giudiziario dunque è lo scambio di persona: quando un
soggetto che non c’entra finisce nei guai perché un magistrato
decide di incastrarlo apposta (dolo) o non si accorge che è
innocente per ignoranza, incapacità, negligenza (colpa grave).
Ora la riforma epocale di A. prevede che il cittadino imputato in un
processo penale o parte in una causa civile potrà denunciare
direttamente il magistrato che gli ha dato torto.
Poi c’è un codicillo della “legge comunitaria” firmata da tal G. P.
che prevede la responsabilità civile del magistrato non solo per dolo
e colpa grave, ma anche per “violazione manifesta del diritto” (che
da che mondo è mondo, è motivo di ricorso in Cassazione).
Sostiene, il giurista da spiaggia, che ce lo impone una sentenza della
Corte europea di Giustizia. Balle: il Consiglio d’Europa raccomanda di
evitare la denuncia diretta al giudice per non condizionarne
l’indipendenza, sancita dalla Carta di Nizza; quanto alla citata sentenza
europea, si riferisce alle violazioni del diritto comunitario commesse
dagli Stati, non dai singoli.
L’ha detto lo stesso governo B. nel 2008, rispondendo a
un’interpellanza radicale: “La legge 117/88 (la Vassalli, ndr) non è in
contrasto con la decisione della Corte di Giustizia”.
L’unico movente della porcata è spaventare le toghe.
In ogni processo c’è sempre uno che vince e uno che perde: ora
chiunque perda potrà denunciare il giudice che gli dà torto.
Così molti giudici, per scansare i guai, nel penale assolveranno sempre
i colpevoli; e nel civile daranno sempre ragione ai potenti e torto ai
deboli (o magari si accorderanno tra colleghi per emettere sentenze-
fotocopia nei vari gradi di giudizio, così che nessuno possa denunciarli
per violazione del diritto).
In ogni caso lo Stato dovrà pagare molti più risarcimenti di oggi.
L’aumento delle denunce intaserà ulteriormente i tribunali, i processi si
allungheranno ancora e l’economia ne uscirà viepiù danneggiata.
In questo caso siamo di fronte ad un intervento volto a dimostrare in maniera caustica e magistrale i pericoli relativi all’introduzione di una forma illimitata di “responsabilità civile” delle toghe.
Tra l’altro Travaglio spiega anche in maniera efficace la differenza tra “dolo” e “colpa grave”.
Infine sono messi in luce i rischi di un ulteriore intasamento dei processi nel nostro, già ingolfato, sistema giudiziario.
Questo poiché a quel punto sarebbe infinite le denuncie di imputati che si sentono vittime di errore.
Immaginate quante migliaia di processi si andrebbero ad assommare a quelli già esistenti…
Contributo di N. Zanon
(tratto da: “Il sistema costituzionale della magistratura”)
“[…] Attualmente la necessità di far valere nei confronti dei
magistrati forme di responsabilità è pacificamente riconosciuta.
[…] La stessa Corte costituzionale ha affermato che l’autonomia e
l’indipendenza della Magistratura non pongono l’una al di là dello
Stato (quasi legibus soluta) né l’altro fuori dall’organizzazione
Statale (sent. 2/1968).
La vera questione costituzionale relativa all’organizzazione di forme
di responsabilità consiste tuttavia nel conciliare l’affermazione della
responsabilità con la tutela dell’indipendenza.
[…] Nel caso dei magistrati non c’è dubbio che l’unico concetto
di responsabilità costituzionalmente ammissibile sia quello della
responsabilità come soggezione ad una sanzione nel caso di
compimento di atti illeciti.
[…] Se si esclude la possibilità di attivare nei confronti dei
magistrati forme di responsabilità di tipo politico, l’attenzione deve
rivolgersi a forme di responsabilità giuridica ossia alla responsabilità
penale e a quelle civili e disciplinari .
La responsabilità. Penale è quella che pone meno problemi poiché
il magistrato è sottoposto alla sanzione penale come ogni altro
cittadino.
La responsabilità civile e quella disciplinare invece posso essere
variamente configurate.
[…] In termini generali la responsabilità disciplinare può essere
fatta valere o da un soggetto posto in una posizione gerarchicamente
sovraordinata nei confronti dei sottoposti oppure dalla categoria o
dall’ordine di appartenenza cui il soggetto aderisce in posizione
paritaria.
[…] Quanto agli illeciti disciplinari commessi nell’esercizio delle loro
funzioni viene data la giusta rilevanza ad alcuni valori-cardine che
devono guidare l’attività del magistrato:
– imparzialità
– correttezza
– laboriosità
– diligenza
[…] La responsabilità civile di tutti i funzionari pubblici trova infatti
oggi un diretto fondamento costituzionale nell’art. 28.
[…] La responsabilità civile dei magistrati deve essere disciplinata in
modo diverso rispetto alla normativa del diritto comune in quanto ciò
risulta necessario a tutelarne il principio di indipendenza.
[…] La scelta compita dal legislatore ordinario all’indomani del
risultato referendario fu nel senso del capovolgimento della precedente
disciplina: oggi il cittadino che si ritiene ingiustamente danneggiato
da un provvedimento giudiziario non può più agire nei confronti del
magistrato e contemporaneamente nei confronti dello Stato ma deve
agire direttamente solo nei confronti dello Stato il quale poi avrà un
diritto di rivalsa nei confronti del magistrato.
Per questo si è parlato di responsabilità dello Stato-Giudice.
[…] In ogni caso, indipendentemente dal giudizio che può essere
dato sulla L. 117/1988, resta il dato obiettivo della sua quasi nulla
applicazione.
Quasi tutte le domande proposte sono state dichiarate inammissibili
già nella fase preliminare in quanto volte a sindacare l’attività di
interpretazione delle norme di diritto o di valutazione dei fatti o delle
prove.
[…] Solo in pochissimi casi la domanda di risarcimento risulta aver
superato il giudizio di ammissibilità: si ricorda il caso di un Pubblico
ministero che aveva disposto la perquisizione nello studio legale di un
avvocato, senza darne comunicazione al presidente dell’Ordine forense
ex art. 133 c.p.p. e quello di un Giudice istruttore che aveva emesso
mandati di cattura per il reato di falso in bilancio aggravato e
continuato sulla base delle qualità, in realtà inesistenti del soggetto di
amministratore e sindaco di una società per azioni.
[…] Stando così le cose si può concludere affermando che la
responsabilità disciplinare ha sempre costituito, di fatto, nel nostro
ordinamento l’unica forma di responsabilità fatta valere nei confronti
dei magistrati.
Dalla lettura emerge una spiegazione più tecnico-scientifica ed esaustiva sotto altri aspetti.
L’autore del passo ci fa capire come esistano sostanzialmente tre tipi di responsabilità verso i magistrati: penale, disciplinare, civile.
Mentre le prime due sono necessarie (in quanto egli è anche un cittadino ed un dipendente pubblico) e non comportano rischi per l’autonomia del singolo Magistrato, la terza rischia invece di comprometterne l’indipendenza e la serenità nell’esercizio del’operato.
Come dice Zanon infatti è necessario nel caso dei Giudici applicare delle procedure particolari.
È doveroso cioè trovare un qualche istituto giuridico che riesca a contemplare entrambe le esigenze.
Da un lato ottenere una sanzione per eventuali errori ed al tempo stesso, dall’altro lato, non minacciare in alcun modo la serenità operativa e l’autonomia dei Giudici.
Nel 1988, all’indomani del famoso Referendum, il Legislatore ha cercato, diciamo così, una possibile soluzione: una sorta di responsabilità civile parziale e indiretta.
Ovvero il Magistrato, nel caso di eventuali errori, rispondeva civilmente solo in due casi specifici ed estremi (dolo e colpa grave) e dopo la mediazione dello Stato (il cittadino si rifaceva sullo Stato, il quale poi poteva rifarsi sul singolo Giudice per un terzo dello stipendio).
Da un punto di vista teorico sembrava essere una buona soluzione ma all’atto pratico si è visto che in rarissimi casi i Magistrati venivano condannati a pagare di tasca loro (solo due volte in 23 anni secondo i dati forniti da Zanon).
Questo a causa di vari motivi che non stiamo adesso ad analizzare in questa sede.
Personalmente ritengo tale sistema tutto sommato accettabile nella misura in cui riduce al minimo i casi in cui si rischia la sanzione economica e questo naturalmente protegge il PM da pesanti “condizionamenti mentali”.
Se si dovesse ampliare il novero dei possibili errori soggetti a sanzione il rischio sarebbe enorme.
I Magistrati lavorerebbero con una enorme spada di Damocle sul capo a tutto discapito dell’efficacia delle indagini e del buon esito del processo.
Capitolo VI
Approfondimenti storico-giuridici
Naturalmente Travaglio non è il primo a confrontarsi su tale questione.
Tantissimi altri intellettuali, giuristi, magistrati, opinionisti lo hanno fatto e lo faranno.
Possiamo qui di seguito offrire una rapida ma corposa carrellata dei precedenti approfondimenti in materia.
– Il contributo di B. Tinti
(tratto da: “La questione immorale”)
[…] Il Pubblico Ministero gode delle stesse garanzie di cui
godono i Giudici.
Insomma dice la nostra Costituzione: Giudici e Pm fanno un
lavoro diverso ma sono e restano magistrati con gli stessi
doveri e le stesse garanzie.
[…] Per far questo il magistrato non deve guardare in
faccia nessuno altrimenti non ci sarebbe giustizia e ci
sarebbe legge del più forte del più potente, del più ricco.
Quello che è in grado di comprare, favorire, spaventare il
magistrato che a quel punto darebbe ragione non a chi ce
l’ha ma a chi lo ha comprato o spaventato; oppure
assolverebbe il potente e condannerebbe il poveraccio.
[…] Perché nel processo penale Giudici assolutamente
autonomi ed indipendenti, non condizionabili ed incorruttibili
sono inutili se il Pubblico Ministero non gli fa arrivare
processi da giudicare.
[…] Se questo Pubblico Ministero continua a far parte della
Magistratura e a godere delle Garanzie che prevede la
Costituzione è ovvio che non è possibile controllarlo e quindi
ecco la .
[…] Perché questa necessaria parità tra Pm e avvocato è solo
una foglia di fico: non serve affatto a garantire gli imputati: il
vero scopo di tutto ciò è quello detto qui sopra: il controllo
del Pm da parte della Politica.
[…] Alla fine è evidente che l’obiettivo è quello di
trasformare il Pubblico Ministero: da magistrato autonomo ed
imparziale ad avvocato dell’accusa.
Cosa significa? È evidente un avvocato alle dipendenze del
Governo, un tecnico del diritto che ha un suo datore di lavoro.
[…] Farà i processi che il Governo gli permette di fare, non
farà i processi che il governo non vuole che egli faccia.
O peggio , qualche volta gli capiterà di dover fare i processi
che il governo gli ordina di fare.
[…] Ciò significherebbe di fatto la morte della legalità e della
Democrazia.
[…] Tutti capiscono che il mestiere del Pubblico Ministero è
quello di tutelare gli interessi della Collettività e che il mestiere
dell’avvocato è quello di tutelare gli interessi del suo cliente.
Per il Pubblico ministero non è importante che l’avvocato non è
importante che l’avvocato venga condannato.
E quindi se l’imputato non è colpevole il PM ha l’obbligo di
chiedere che venga assolto.
Alla fine nel Pubblico Ministero si riassume il ruolo di accusatore
e difensore: egli cerca di capire se l’imputato è colpevole o
innocente e quando crederà di averlo capito chiederà la condanna
o l’assoluzione.”
Da tale estratto è possibile dedurre sostanzialmente due concetti fondamentali:
l’importanza dell’Indipendenza della Magistratura inquirente e l’inconsistenza dell’argomentazione della “parità tra accusa e difesa”.
Per quanto riguarda il primo elemento Tinti sottolinea molto intelligentemente come solo con l’assoluta autonomia dei Pm lo Stato è in grado di garantire l’Eguaglianza di fronte alla legge di tutti i cittadini.
Naturalmente, come afferma il nostro autore, un organo inquirente sottoposto al controllo di poteri esterni (polizia, governo ecc.) non sarà più in grado di garantire pienamente questo Principio.
In secondo luogo, l’ex magistrato pone in luce come sia fallacie e pretestuosa la famosa argomentazione della parità tra accusa e difesa per giustificare la separazione delle carriere.
L’esigenza di tale parità infatti non ha alcun senso dal momento che, all’atto pratico nel sistema giuridico italiano l’accusa non esiste.
Esiste solamente un rappresentante dello Stato (il Pm) il cui compito è quello di accertare la verità e non di accusare a prescindere.
Il Pubblico Ministero infatti nell’ordinamento italiano è al tempo stesso accusa e difesa.
Una eventuale separazione delle carriere lo obbligherebbe ad una mera ed ottusa ricerca della condanna a prescindere, condannerebbe egli stesso al privazione peggiore: la libertà della ricerca della Verità.
Con conseguenze devastanti sulle garanzie dell’imputato e sull’interesse generale della collettività.
– Il contributo di G. Zagrebelsky
(tratto da: “Principi e voti”)
“[…] I Giudici della Corte Costituzionale sono circondati da alte
mura protettive della loro indipendenza: il divieto di svolgere
attività che abbiano a che fare con partiti o associazioni politiche,
l’incompatibilità con incarichi ed impieghi di qualunque genere
(pubblici e privati), l’immunità per le opinioni espresse ed i voti
dati nell’esercizio delle loro funzioni e la protezione contro
iniziative giudiziarie vessatorie nei loro confronti, la garanzie
dell’eventuale rientro alla scadenza del mandato nella posizione
di professore o di magistrato occupata prima dell’assunzione della
carica, il trattamento retributivo e pensionistico più che adeguato
per una esistenza libera e dignitosa loro e della propria famiglia.”
Zagrebelsky invece ci offre in questo passaggio una prospettiva diversa, tocca un tema ulteriore.
Il nostro ci illumina su una specifica indipendenza, altrettanto importante: quella dei Giudici della Corte Costituzionale.
Anche quei Giudici naturalmente devono godere di assoluta autonomia anche se il loro dovere non è quello di giudicare gli imputati ma le leggi.
La Consulta si configura infatti come il “Giudice delle leggi”, oltre ovviamente ad assolvere ad altri compiti secondari.
Cambia quindi l’oggetto del giudicare ma l’assoluta necessità di indipendenza rimane immutata.
Zagrebelsky ci porge di conseguenza tutta una serie di garanzie finalizzate proprio al raggiungimento del suddetto scopo (l’immunità per le opinioni, la garanzia del rientro alla precedente mansione alla scadenza del mandato ecc.)
Anche quello della Corte Costituzionale ovviamente è un lavoro delicatissimo, importantissimo e che necessita di conseguenza di ampie garanzie.
– Il contributo di N. Zanon
(tratto da: “Il sistema costituzionale della magistratura”)
Parte 1
“[…] In linea di principio due coppie concettuali omogenee di
nozioni relative all’indipendenza sia dei giudici come singoli che
della magistratura complessivamente intesa.
La prima coppia concettuale è costituita dalle nozioni di
indipendenza interna ed esterna.
[…] I concetti di esterno ed interno servono a meglio consentire
l’identificazione dei soggetti rispetto ai quali l’indipendenza va
garantita.
[…] La garanzia dell’indipendenza esterna serve a proteggere la
magistratura nel suo complesso ma anche il singolo magistrato
dalle insidie eventualmente provenienti da organi e poteri esterni
alla magistratura stessa (in genere politici).
[…] Mentre la garanzia dell’indipendenza interna serve a tutelare
il singolo magistrato dai possibili attentati alla sua indipendenza
che provengono dall’interno stesso della magistratura.
[…] La seconda coppia concettuale costituita dalle nozioni di
indipendenza istituzionale e funzionale serve invece a capire quale
aspetto o caratteristica della magistratura si vuole difendere.
Se l’oggetto della tutela è l’organizzazione e la struttura
burocratica della magistratura avremo a che fare con una
indipendenza di tipo istituzionale.
La garanzia di questo tipo serve a proteggere l’ordinamento interno
della magistratura da interventi che, incidendo radicalmente
sull’applicazione delle regole alla carriera o allo status dei magistrati
proprio perché riguarda la figura, finiscano per mettere
indirettamente in pericolo l’indipendenza e l’autonomia della loro
attività.
[…] Se oggetto della tutela sono invece i caratteri tipici della
funzione giurisdizionale avremo a che fare con una indipendenza di
tipo funzionale.
Tale garanzia assicura che, nell’esercizio in concreto della funzione
giudiziaria, il magistrato non subisca interferenze di alcun genere.
In questo primo passo Zanon mette in luce una più specifica distinzione tra vari tipi di Autonomia dei Giudici.
Da un lato vi è l’Indipendenza “esterna” ovvero la tutela della magistratura da ingerenze o controlli esterni (polizia, governi, ministri…) ed essa può essere configurata come la forma classica di autonomia.
Poi vi è l’Indipendenza “interna” cioè la protezione del Pm da parte di ipotetici condizionamenti interni alla magistratura stessa (più raro ma può lo stesso capitare)
In secondo luogo, su un’altra dimensione, troviamo la cosiddetta Indipendenza “istituzionale” ovvero la garanzia dello status e della credibilità del singolo Pm e della struttura stessa della magistratura.
Infine abbiamo l’Indipendenza “funzionale” cioè tutta quella serie di procedure poste in essere per assicurare il corretto esercizio in concreto dell’azione penale del Pm senza interferenze.
Parte 2
“[…] La figura del Pubblico ministero può essere riguardata sia dal
punto di vista ordinamentale sia da quello processuale.
[…] Dal primo punto di vista si può dire che il Pubblico Ministero
sia un magistrato sciolto da legami burocratici o gerarchici con il
potere esecutivo e caratterizzato invece da comunanza di status e di
garanzie con i magistrati giudicanti.
Dal secondo punto di vista si può dire che nei processi il Pm non
fa valere gli interessi dell’amministrazione e del potere esecutivo ma
piuttosto quelli oggettivi della legge e dell’ordinamento giuridico.
[…] Esso non sarebbe vincolato ad accusare ad ogni costo bensì
nelle vesti di tenuto ad esercitare imparzialmente
l’azione penale.
[…] Così afferma la Corte il Pm non fa valere interessi particolari
ma agisce esclusivamente a tutela degli interessi generali
nell’osservanza della legge: persegue come si usa dire fini di
giustizia (sent. 190/1970).
Ad esso è riservata la funzione di organica collaborazione giudiziaria
per fini di giustizia e nell’interesse generale della legge (sent. 123/1971).
La sua funzione è funzione pubblica da svolgere super partes a tutela
di superiori interessi di giustizia obiettiva (sent. 63/1972).
Nel concetto di giurisdizione deve intendersi compresa, non solo
l’attività decisoria che è peculiare e propria del giudice, ma anche
l’attività di esercizio dell’azione penale che con la prima si coordina
in un rapporto di compenetrazione organica ai fini di giustizia
(sent. 96/1975).
Il ruolo del Pm non è quello di mero accusatore ma pur sempre di
organo di giustizia obbligato a ricercare tutti gli elementi di prova per
una giusta decisione, ivi compresi gli elementi favorevoli all’imputato
(sent. 88/1991).
Inoltre, in questo secondo estratto, ci vengono offerti vari riferimenti normativi scaturiti da altrettante sentenze della Consulta.
Sentenze queste volte proprio a far comprendere come il Pm debba essere configurato come un “organo di giustizia” svincolato da ogni obbligo di accanimento verso l’imputato.
Il ruolo del Pm infatti, come dice Zanon e come illustra la Corte, non è quello di mero accusatore bensì quello di magistrato che persegue interessi generali e superiori (l’accertamento della verità).
– Contributo di P. Maddalena
(tratto da: “Il Giudice ed i suoi limiti”)
pag. 86 e seg.
[…] Le vecchie proposte di Magistratura Democratica evidenziano
un altro importante mutamento rispetto al passato: le riflessioni
e le domande sulla legittimazione del magistrato e sulla sua
responsabilità.
[…] Possiamo dunque ben dire che questi uomini (Calamandrei ed
altri) non pensavano affatto che l’indipendenza della magistratura
e forme di collegamento tra giustizia e collegamento democratico
fossero incompatibili.
[…] Dunque nella discussione di quegli anni la linea ispiratrice
delle correnti progressiste fu proprio la necessità di attivare un
collegamento tra giustizia e principio di sovranità popolare.
[…] Dunque la discussione sulla democratizzazione della giustizia
abbandonava le mere petizioni di principio e si concretizzava in
precise proposte: le ricette suggerite rimanevano nel solco della
“tradizione giacobina”.
Ovvero Giudici di primo grado eletti dal popolo e Pubblico
ministero organo dell’Esecutivo.
[…] E’ che un rafforzamento della legittimazione del Pubblico
ministero realizzata attraverso un suo collegamento, diretto o
indiretto al potere politico, o esecutivo o legislativo,
comporterebbe la perdita della sua indipendenza.
Un sistema di questo tipo servirebbe a frenare o insabbiare
indagini scomode.
[…] Del resto nel sistema statunitense la nomina elettiva dei capi
degli uffici statali è vista proprio come la fonte della loro
autonomia non solo rispetto alle altre istituzioni ma anche verso
l’Esecutivo.
Insomma proprio per il fatto di beneficiare di un sostegno politico
proprio e diretto attribuisce al pubblico ministero una piena
indipendenza dal potere politico.
Al contempo lo rende responsabile vero i cittadini così affinando
l’efficienza del suo operato.
In questo passo viene posto il tema delicatissimo del rapporto tra magistratura e relativa legittimazione democratica.
Personalmente ritengo che la magistratura non abbia bisogno di una “fonte popolare” rispetto alla sua legittimazione; poiché diventerebbe automaticamente un organo di parte e costantemente condizionato (dal volere popolare, dalle bizze umorali del momento, da una opinione pubblica sempre più ballerina…).
Perderebbe in un sol colpo imparzialità ed autonomia.
La cosa interessante da notare è invece che storicamente i più pericolosi ed insidiosi attacchi all’indipendenza dei Giudici venivano da forze progressiste (cioè di sinistra) e dai famosi Giacobini (che oggi invece vengono additati di pretese diametralmente opposte).
Questo fa capire quanta confusione storico-concettuale vi sia nel nostro Paese, quanta disinformazione e quanto pressapochismo vi sia nei giudizi…
– Contributo di S. Sicardi
(tratto da: “Ordine Giudiziario e separazione delle carriere: pareggiamento o differenziazione
delle garanzie di indipendenza?”)
pag. 6 e seg.
[…] Come si è già ricordato in precedenza, indipendentemente
dai diversi periodi della storia istituzionale del nostro Paese si è
registrata in Italia una costante tendenza a non impedire passaggi
tra magistratura giudicante ed inquirente.
Tutto ciò si è abbinato, nel periodo repubblicano, ad una
assimilazione dei due Status sul piano delle garanzie e su quello
relativo ai meccanismi di promozione e di attribuzione delle
funzioni direttive e non.
Si è affermato in modo implicito ed indolore, fin dalla
conclusione dei lavori dell’Assemblea Costituente il principio
secondo cui del CSM e nella competenza del CSM rientravano
tanto i magistrati giudicanti che quelli requirenti così come
l’equiparazione in relazione allo Status ed alle garanzie di
indipendenza dei secondi rispetto ai primi.
[…] In senso opposto a questa consuetudine di osmosi si è mossa
tra accese polemiche la riforma dell’ordinamento giudiziario del
2005/06 con l’obiettivo di rendere rari e difficili i passaggi dalle
funzioni requirenti a quelle giudicanti e viceversa (solo attraverso
la partecipazione ad un nuovo concorso).
Da questo frammento emerge in maniera chiara come storicamente nel nostro Paese la condizione di coabitazione tra i Giudici e Pm sia stata una vera e propria consuetudine.
È stato quindi naturale, al termine dei lavori della Costituente, creare un solo ed unico organo di autogoverno (il CSM).
È altrettanto lampante come questa condizione di osmosi abbia, di conseguenza attribuito anche ai Pm le sacre guarentigie dell’Indipendenza.
La carriera e l’ordinamento erano unici sia nel periodo monarchico che nel periodo fascista ed hanno continuato ad esserlo anche in quello Repubblicano (fino ai giorni nostri).
La differenza, come è facile intuire e comprendere, si aveva nel fatto che nelle prime due fasi l’ordinamento unico garantiva la sottomissione di entrambe le funzioni (Giudicante e Requirente) al potere.
Nella fase attuale, al contrario, la carriera unica garantisce proprio l’esatto opposto.
– Contributo di F. Moroni
(tratto da: “Soltanto alla legge”)
pag. 36 e seg.
[…] Emerge chiaramente dall’analisi dei progetti di Calamandrei,
Leone, Patricolo, Ruini e dal dibattito del plenum assembleare si
delineano tre orientamenti generali:
a) la Dc che tenta una mediazione tra autogoverno e collegamento
con gli altri poteri
b) le destre schierate per l’autogoverno della magistratura e la loro
indipendenza
c) le sinistre che volevano un forte collegamento delle magistrature
col popolo
Spicca per sistematicità ed organicità la relazione presentata
Calamandrei che pone in primo piano accanto all’unicità della
giurisdizione l’esigenza di preservare da ogni inframettenza di
carattere politico l’assoluta tanto della magistratura giudicante quanto
degli uffici del Pubblico Ministero.
Secondo l’illustre esponente del Partito d’Azione la sottoposizione
anche del Pm al principio di legalità, rinforzato dall’ulteriore congegno
dell’obbligatorietà dell’azione penale, avrebbe consentito di scongiurare
pro futuro quelle pericolose interferenze politiche sull’attività requirente
che nel recente passato avevano ridotto a mero simulacro il principio
di uguaglianza.
[…] Abbracciando le più radicali richieste di autogoverno invece gli
On. Patricolo e Castiglia esponenti del Fronte liberale democratico
propongono sia l’abolizione del Ministro Politico della Giustizia sia la
previsione in sede costituzionale di particolari forme di procedibilità
per i reati commessi dai magistrati nell’esercizio delle loro funzioni.
[…] Ruini nel presentare il progetto elaborato dalla Commissione dei 75
ricorda con grande moderazione:
“Non occorre aggiungere quale importanza abbia per una sana
Democrazia l’indipendenza della magistratura che, come ogni altra
amministrazione ha alla sua radice il voto popolare ma il concorso
(…) per adempire il mandato che esercita in nome del popolo la
Magistratura è autonoma ed indipendente.”
[…] Il laborioso iter di mediazioni tra tutte le concezioni passa
attraverso il ritiro o la mancata approvazione di una serie di proposte
di diverso tenore: scartato l’emendamento Ambrosini (“Il Pm gode di
tutte le garanzie dei magistrati”), rigettate le indicazioni di Leone (“Il
Pm dipende dal ministro della Giustizia”), e di Cappi (“Il PM è
sottoposto al controllo alla vigilanza del Ministro della Giustizia”), il
punto di compromesso viene trovato infine nella formula dell’Articolo 107,
comma 4 Costituzione. (“Il pubblico ministero gode delle garanzie stabilite
nei suoi riguardi dalle norme sull’ordinamento giudiziario”).
[…] Il ragionamento è dunque circolare: il principio di uguaglianza dei
cittadini e di indipendenza del magistrato sono collegati; l’indipendenza
della magistratura ha bisogno del suo autogoverno; l’autogoverno
presuppone la mancanza di ogni controllo politico, questo comporta
l’applicazione indefettibile della legge e l’obbligatorietà dell’azione penale;
infine il principio di obbligatorietà dell’azione penale assicura
l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge.
Anche in questo caso è interessante notare come sin dall’inizio dei lavori della Costituente a difendere le garanzie di autonomia dei Giudici fossero proprio le forze di destra, mentre quelle di centro e di sinistra si battevano per altre soluzioni (sottomissione all’Esecutivo, elezione popolare ecc.).
Ed è altrettanto importante sottolineare la presa di posizione di Ruini il quale saggiamente ravvisava la non-necessità di una elezione del Pm (possibilità questa molto pericolosa).
Secondo lo Statista infatti era invece determinante l’immissione all’interno della magistratura tramite concorso (garanzia di totale imparzialità e sicurezza nell’agire).
Di certo condivisibile infine il ragionamento conclusivo che sottolinea magistralmente il legame indissolubile, sia da un punto di vista logico che ontologico, tra Autonomia della Magistratura ed Uguaglianza dinnanzi alla Legge.
Poi naturalmente occorrerebbe spiegare come le altre Democrazie al mondo possano garantire l’Uguaglianza (davanti alla legge) pur essendo sprovviste di Indipendenza (dei Pm)…
Questione questa di enorme complessità filosofica ancor prima che giuridica ma al tempo stesso troppo complicata e delicata per essere trattata in poche righe.
Lasciamo dunque l’enigma ad altre occasioni.
A beneficio del lettore è opportuno ricordare che, su tale argomento, un breve e parziale chiarimento viene offerto nel cap. VIII.
– Contributo di G. Silvestri
(tratto da: “Giustizia e Giudici nel sistema costituzionale”)
pag. 110 e seg.
[…] una summa divisio tra magistrati giudicanti e inquirenti con conseguenti
effetti sul modo di rapportarsi l’uno all’altro e con la creazione di apposite
strutture di auto-governo non comuni ai magistrati giudicanti.
Il vantaggio di una simile innovazione sarebbe quello di instaurare una
effettiva alterità tra “organo della accusa” ed “organo della decisione”.
Il problema esiste nella prassi ma il rimedio proposto sarebbe peggiore
del male.
La professionalizzazione dei magistrati pubblici ministeri staccati dall’ordine
Giudiziario, e costituiti in corpo autonomo, trasformerebbe il Pm da
“organo di giustizia”, vincolato esclusivamente all’applicazione imparziale
della Legge ad organo teleologicamente orientato al risultato, la condanna
dell’imputato, il cui raggiungimento diventerebbe l’essenza della funzione.
Un corpo di “professionisti dell’accusa” che diventerebbero in breve tempo
parti in senso sostanziale e non soltanto processuale si troverebbe
probabilmente a metà strada tra politica e giurisdizione: non si sfuggirebbe
all’alternativa di ricondurlo al controllo delle sedi democratiche del potere
(Parlamento, Governo) o di accettare il formarsi di una categoria
eccessivamente potente e ristretta.
Qui l’autore si sofferma su un concetto fondamentale: la differenza tra “separazione delle carriere” e “separazione delle funzioni” (accennato ma poi ripreso nel passo successivamente citato).
Una doverosa specializzazione del Pm e quindi una distinzione delle funzioni, afferma l’autore, sebbene sia utile per determinati motivi, rischierebbe però di peggiorare la situazione.
Una separazione delle funzioni rischierebbe cioè, se tramutata in separazione delle carriere, di creare o un Pm privo della bussola della verità e della imparzialità o un Pm completamente sottomesso a Poteri esterni.
Come giustamente aggiunge Silvestri, la medicina sarebbe peggio della malattia.
Si passerebbe da un Pm in simbiosi col Giudice ad un Pm che ha il “cottimo sulle condanne” come dice Travaglio.
Si passerebbe infine da un magistrato garante dei diritti dell’imputato (prima ancora dell’avvocato) ad un magistrato cieco e furioso pronto a tutto pur di giungere a condanna.
Personalmente ritengo invece che la prima opzione non rappresenti un “male minore”, come sottilmente trapela dalle parole dell’autore, ma al contrario si configuri come “un bene maggiore”.
Finché il Pm si forma accanto al Giudice ragionerà come un Giudice.
– Contributo di E. Bruti Liberati
(tratto da: “Giustizia e Referendum”)
pag. 36 e seg.
[…] Differenziare Pubblici Ministeri e Giudici è una necessità.
Per ragioni sia di sostanza che di immagine: ovvie le differenze dei ruoli
occorre evitare indebite commistioni.
Ma resta da determinare il come della separazione.
Le proposte a riguardo sono numerose ed eterogenee:
a) Risoluzione 24 febbraio 1993 del CSM
Predisposizione di momenti di formazione professionale assidua e di alto
livello (…) previsione di un più lungo periodo di attività nell’esercizio
delle funzioni specializzate e quindi anche nell’esercizio delle funzioni di
pubblico ministero, obbligo di una sessione di riconversione preliminare al
passaggio dalla funzione requirente a quella giudicante (…)
Sono questi gli interventi che paiono più confacenti agli scopi dichiarati
ed immuni dagli inconvenienti che la separazione produrrebbe.
b) Disegno di legge governativo 22 novembre 1996
(…) Il passaggio a domanda dell’interessato da funzioni giudicanti a
funzioni requirenti e viceversa può essere disposto a seguito di frequenza
di un corso di qualificazione professionale organizzato dal Consiglio
superiore della magistratura ed è subordinato ad un giudizio di idoneità
allo svolgimento delle diverse funzioni espresso dal Consiglio superiore
espresso dal Consiglio giudiziario.
c) Progetto della Commissione Bicamerale
(…) Il passaggio da funzioni giudicanti a funzioni di pubblico ministero e
viceversa è successivamente consentito solo tramite concorso privato.
In caso di passaggio le da uno ad un altro incarico le funzioni giudicanti
penali e quelli di pubblico ministero non possono essere svolte nel
medesimo distretto giudiziario.
A questo punto finalmente ci vengono proposte delle possibili soluzioni per potenziare la distinzione delle funzioni senza corrodere la “sacra autonomia del Pm”
Sono 3 progetti (non realizzati) di riforme finalizzati proprio a mettere dei paletti per scoraggiare il passaggio da una funzione all’altra.
A mio parere è sbagliata anche la semplice distinzione delle funzioni ma se essa rappresentasse una mediazione o un compromesso tale da salvaguardare l’indipendenza dei magistrati sarebbe comunque preferibile.
Certo, a mio modo di vedere, peggiorerebbe comunque le cose ma almeno limiterebbe i danni.
Da notare come Travaglio si sia spesso scagliato contro il progetto della Bicamerale (1997)… se esso rappresenti comunque un pericolo per l’Indipendenza dei Pm è tuttavia una questione troppo complessa per essere trattata in questo luogo.
– Contributo di R. Corona:
(tratto da: “La specializzazione dei magistrati e la separazione delle carriere”)
pag. 79 e seg.
[…] Per l’amministrazione della Giustizia la separazione delle carriere
raffigura una svolta importante.
[…] Al contrario molteplici ed importanti sono le ragioni emerse a favore:
ragioni forti.
a) Anzitutto l’esempio giudiziario di Paesi europei sicuramente
democratici dotati di considerevoli tradizioni giurisdizionali.
Posto che al sistema delle separazione delle carriere governa gli
ordinamenti della Germania e della Gran Bretagna, evidentemente la
separazione corrisponde alle esigenze di un assetto più moderno
equilibrato e funzionale dell’amministrazione giudiziaria.
b) Il modello della separazione delle carriere inoltre appare necessario
per dare concreata attuazione al giusto processo di cui fa menzione il
nuovo testo dell’articolo 111 Costituzione (…) costruito sulla base della
parità effettiva delle parti.
c) Infine risponde a moderni criteri di razionalità e di efficienza separare
le Istituzioni che perseguono fini diversi ed utilizzano strumenti diversi.
In questo caso siamo di fronte invece ad una argomentazione a favore della separazione delle carriere.
Peccato che le motivazioni addotte siano alquanto discutibili.
L’autore ne cita tre: tutte insufficienti ed inefficaci per una effettiva e veritiera dimostrazione.
In primo luogo il semplice fatto che due autorevoli Paesi europei applichino un dato sistema giuridico, non significa necessariamente che quel sistema sia giusto e vantaggioso.
Non è di per sé una motivazione sufficiente per importarlo: un sistema è giusto se è giusto e non se è applicato altrove.
In secondo luogo, come abbiamo più volte ribadito, il processo italiano non presenta al suo interno la figura dell’Accusa.
Il Pm rappresenta invece un Organo di Giustizia e non ha l’obbligo della ricerca della condanna a tutti i costi.
Infine è destituito da ogni fondamento l’affermazione secondo cui Giudici e Pm perseguono fini diversi.
È errato, essi perseguono un obiettivo unico: l’accertamento della Verità.
Il quelle fine rappresenta, come spesso ci ha ricordato la Consulta, l’interesse generale della collettività, cioè dello Stato.
Capitolo VII
Provvedimenti legislativi
Metto ora a disposizione del lettore una ampia gamma di testi di varie norme (sentenze della Consulta, leggi, articoli del codice ecc.) che erano stati citati direttamente o indirettamente durante i capitoli precedenti e posso essere qui agevolmente consultati.
È da precisare che le varie norme citate non rappresentano i testi originari nella loro completezza bensì delle selezioni e stralci.
L. 117/1988 (L. Vassalli)
Articolo 1
1. Le disposizioni della presente legge si applicano a tutti gli appartenenti alle magistrature ordinaria, amministrativa, contabile, militare e speciali, che esercitano l’attività giudiziaria, indipendentemente dalla natura delle funzioni, nonché agli estranei che partecipano all’esercizio della funzione giudiziaria.
2. Le disposizioni di cui al comma 1 si applicano anche ai magistrati che esercitano le proprie funzioni in organi collegiali.
3. Nelle disposizioni che seguono il termine <> comprende tutti i soggetti indicati nei commi 1 e 2.
Articolo 2
1. Chi ha subito un danno ingiusto per effetto di un comportamento, di un atto o di un provvedimento giudiziario posto in essere dal magistrato con dolo o colpa grave nell’esercizio delle sue funzioni ovvero per diniego di giustizia può agire contro lo Stato per ottenere il risarcimento dei danni patrimoniali e anche di quelli non patrimoniali che derivino da privazione della libertà personale.
2. Nell’esercizio delle funzioni giudiziarie non può dar luogo a responsabilità l’attività di interpretazione di norme di diritto né quella di valutazione del fatto e delle prove.
3. Costituiscono colpa grave:
a) la grave violazione di legge determinata da negligenza inescusabile;
b) l’affermazione, determinata da negligenza inescusabile, di un fatto la cui esistenza è incontrastabilmente esclusa dagli atti del procedimento;
c) la negazione, determinata da negligenza inescusabile, di un fatto la cui esistenza risulta
incontrastabilmente dagli atti del procedimento;
d) l’emissione di provvedimento concernente la libertà della persona fuori dei casi consentiti dalla legge oppure senza motivazione.
Articolo 3
1. Costituisce diniego di giustizia il rifiuto, l’omissione o il ritardo del magistrato nel compimento di atti del suo ufficio quando, trascorso il termine di legge per il compimento dell’atto, la parte ha presentato istanza per ottenere il provvedimento e sono decorsi inutilmente, senza giustificato motivo, trenta giorni dalla data di deposito in cancelleria.
Se il termine non è previsto, debbono in ogni caso decorrere inutilmente trenta giorni dalla data del deposito in cancelleria dell’istanza volta ad ottenere il provvedimento.
2. Il termine di trenta giorni può essere prorogato, prima della sua scadenza, dal dirigente dell’ufficio con decreto motivato non oltre i tre mesi dalla data di deposito dell’istanza. Per la redazione di sentenze di particolare complessità, il dirigente dell’ufficio, con ulteriore decreto motivato adottato prima della scadenza, può aumentare fino ad altri tre mesi il termine di cui sopra.
3. Quando l’omissione o il ritardo senza giustificato motivo concernono la libertà personale dell’imputato, il termine di cui al comma 1 è ridotto a cinque giorni, improrogabili, a decorrere dal deposito dell’istanza o coincide con il giorno in cui si è verificata una situazione o è decorso un termine che rendano incompatibile la permanenza della misura restrittiva della libertà personale.
Articolo 4
1. L’azione di risarcimento del danno contro lo Stato deve essere esercitata nei confronti del Presidente del Consiglio dei Ministri.
Competente è il tribunale del luogo ove ha sede la corte d’appello del distretto più
vicino a quello in cui è compreso l’ufficio giudiziario al quale apparteneva il magistrato al momento del fatto, salvo che il magistrato sia venuto ad esercitare le funzioni in uno degli uffici di tale distretto.
In tal caso è competente il tribunale del luogo ove ha sede la corte d’appello dell’altro distretto più
vicino, diverso da quello in cui il magistrato esercitava le sue funzioni al momento del fatto.
Per determinare il distretto della corte d’appello più vicino si applica il disposto dell’articolo 5 della legge 22 dicembre 1980, n. 879.
2. L’azione di risarcimento del danno contro lo Stato può essere esercitata soltanto quando siano stati esperiti i mezzi ordinari di impugnazione o gli altri rimedi previsti avverso i provvedimenti cautelari e sommari, e comunque quando non siano più possibili la modifica o la revoca del provvedimento ovvero, se tali rimedi non sono previsti, quando sia esaurito il grado del procedimento nell’ambito del quale si è verificato il fatto che ha cagionato il danno.
La domanda deve essere proposta a pena di decadenza entro due anni che decorrono
dal momento in cui l’azione è esperibile.
3. L’azione può essere esercitata decorsi tre anni dalla data del fatto che ha cagionato il danno se
in tal termine non si è concluso il grado del procedimento nell’ambito del quale il fatto stesso si è
verificato.
4. Nei casi previsti dall’articolo 3 l’azione deve essere promossa entro due anni dalla scadenza del termine entro il quale il magistrato avrebbe dovuto provvedere sull’istanza.
5. In nessun caso il termine decorre nei confronti della parte che, a causa del segreto istruttorio, non abbia avuto conoscenza del fatto.
Articolo 5
1. Il tribunale, sentite le parti, delibera in camera di consiglio sull’ammissibilità della domanda di cui all’articolo 2.
2. A tale fine il giudice istruttore, alla prima udienza, rimette le parti dinanzi al collegio che è
tenuto a provvedere entro quaranta giorni dal provvedimento di rimessione del giudice istruttore.
3. La domanda è inammissibile quando non sono rispettati i termini o i presupposti di cui agli articoli 2, 3 e 4 ovvero quando è manifestamente infondata.
4. L’inammissibilità è dichiarata con decreto motivato, impugnabile con i modi e le forme di cui
all’articolo 739 del codice di procedura civile, innanzi alla corte d’appello che pronuncia anch’essa in camera di consiglio con decreto motivato entro quaranta giorni dalla proposizione del reclamo. Contro il decreto di inammissibilità della corte d’appello può essere proposto ricorso per cassazione, che deve essere notificato all’altra parte entro trenta giorni dalla notificazione del decreto da effettuarsi senza indugio a cura della cancelleria e comunque non oltre dieci giorni.
Il ricorso è depositato nella cancelleria della stessa corte d’appello nei successivi dieci giorni e l’altra parte deve costituirsi nei dieci giorni successivi depositando memoria e fascicolo presso
la cancelleria.
La corte, dopo la costituzione delle parti o dopo la scadenza dei termini per il deposito, trasmette gli atti senza indugio e comunque non oltre dieci giorni alla Corte di cassazione che decide entro sessanta giorni dal ricevimento degli atti stessi.
La Corte di cassazione, ove annulli il provvedimento di inammissibilità della corte d’appello, dichiara ammissibile la domanda. Scaduto il quarantesimo giorno la parte può presentare,
rispettivamente al tribunale o alla corte d’appello o, scaduto il sessantesimo giorno, alla Corte di cassazione, secondo le rispettive competenze, l’istanza di cui all’articolo 3.
5. Il tribunale che dichiara ammissibile la domanda dispone la prosecuzione del processo.
La corte d’appello o la Corte di cassazione che in sede di impugnazione dichiarano ammissibile la domanda rimettono per la prosecuzione del processo gli atti ad altra sezione del tribunale e, ove questa non sia costituita, al tribunale che decide in composizione interamente diversa.
Nell’eventuale giudizio di appello non possono far parte della corte i magistrati che abbiano fatto parte del collegio che ha pronunziato l’inammissibilità.
Se la domanda è dichiarata ammissibile, il tribunale ordina la trasmissione di copia degli atti ai titolari dell’azione disciplinare; per gli estranei che partecipano all’esercizio di funzioni giudiziarie la copia degli atti è trasmessa agli organi ai quali compete l’eventuale sospensione o revoca della loro nomina.
Articolo 6
1. Il magistrato il cui comportamento, atto o provvedimento rileva in giudizio non può essere chiamato in causa ma può intervenire in ogni fase e grado del procedimento, ai sensi di quanto disposto dal secondo comma dell’articolo 105 del codice di procedura civile.
Al fine di consentire l’eventuale intervento del magistrato, il presidente del tribunale deve dargli comunicazione del procedimento almeno quindici giorni prima della data fissata per la prima udienza.
2. La decisione pronunciata nel giudizio promosso contro lo Stato non fa stato nel giudizio di rivalsa se il magistrato non è intervenuto volontariamente in giudizio. Non fa stato nel procedimento disciplinare.
3. Il magistrato cui viene addebitato il provvedimento non può essere assunto come teste né nel
giudizio di ammissibilità, né nel giudizio contro lo Stato.
Articolo 7
1. Lo Stato, entro un anno dal risarcimento avvenuto sulla base di titolo giudiziale o di titolo stragiudiziale stipulato dopo la dichiarazione di ammissibilità di cui all’articolo 5, esercita l’azione di rivalsa nei confronti del magistrato.
2. In nessun caso la transazione è opponibile al magistrato nel giudizio di rivalsa e nel giudizio disciplinare.
3. I giudici conciliatori e i giudici popolari rispondono soltanto in caso di dolo. I cittadini estranei alla magistratura che concorrono a formare o formano organi giudiziari collegiali rispondono in caso di dolo e nei casi di colpa grave di cui all’articolo 2, comma 3, lettere b) e c).
Articolo 8
1. L’azione di rivalsa deve essere promossa dal Presidente del Consiglio dei Ministri.
2. L’azione di rivalsa deve essere proposta dinanzi al tribunale del luogo ove ha sede la corte d’appello del distretto più vicino a quello in cui è compreso l’ufficio giudiziario al quale apparteneva, al momento del fatto, il magistrato che ha posto in essere il provvedimento, salvo che il magistrato sia venuto ad esercitare le funzioni in uno degli uffici di tale distretto.
In tal caso è competente il tribunale del luogo ove ha sede la corte d’appello di altro distretto più vicino.
3. La misura della rivalsa non può superare una somma pari al terzo di una annualità dello stipendio, al netto delle trattenute fiscali, percepito dal magistrato al tempo in cui l’azione di risarcimento è proposta, anche se dal fatto è derivato danno a più persone e queste hanno agito con distinte azioni di responsabilità.
Tale limite non si applica al fatto commesso con dolo.
L’esecuzione della rivalsa quando viene effettuata mediante trattenuta sullo stipendio, non può comportare complessivamente il pagamento per rate mensili in misura superiore al quinto dello stipendio netto.
4. Le disposizioni del comma 3 si applicano anche agli estranei che partecipano all’esercizio delle funzioni giudiziarie.
Per essi la misura della rivalsa è calcolata in rapporto allo stipendio iniziale annuo, al netto delle trattenute fiscali, che compete al magistrato di tribunale; se l’estraneo che partecipa all’esercizio
delle funzioni giudiziarie percepisce uno stipendio annuo netto o reddito di lavoro autonomo netto inferiore allo stipendio iniziale del magistrato di tribunale, la misura della rivalsa è calcolata in rapporto a tale stipendio o reddito al tempo in cui l’azione di risarcimento è proposta.
Sentenze Consulta
190/1970
[…] Per quanto riguarda la posizione del p.m. nel processo, l’Avvocatura ricorda l’evoluzione legislativa in materia e mette in rilievo che ormai, in base ai vigenti principi costituzionali, non può mettersi in dubbio l’appartenenza del p.m. all’ordine giudiziario.
Portatore di un pubblico interesse (tanto che lo stesso codice processuale lo distingue dalle parti private), egli non può essere posto sullo stesso piano del difensore dell’imputato, ed a lui legittimamente sono attribuiti, in vista delle funzioni affidategli, poteri non riconosciuti al secondo: ciò giustifica la ratio del diverso trattamento.
123/1971
[…] Non può, quindi, fondatamente ritenersi che in violazione del principio di indipendenza sancito dall’art. 101, secondo comma, della Costituzione, l’art. 370 vincoli il G.I., limitandone il libero convincimento, a dare esecuzione immediata e acritica alle richieste di ulteriori atti istruttori ch e gli pervengano dal pubblico ministero.
A questo soggetto, nel sistema, resta riservata (e ciò deve confermarsi con riguardo alla fase conclusiva della istruttoria formale) la funzione, pur importantissima, di organica collaborazione giudiziaria, per fini di giustizia e nel rispetto dell’interesse obiettivo della legge.
63/1972
[…] È stato ritenuto che, pur agendo il pubblico ministero esclusivamente nell’interesse della legge , non è da escludere che, nella dialettica del processo, anch’esso sia da considerare come parte: ma che, tuttavia, da ciò non consegue che i poteri processuali del difensore debbano essere sempre pari a quelli del pubblico ministero, il quale, per la sua peculiare posizione istituzionale, per la funzione assegnatagli, o per esigenze connesse alla corretta amministrazione della giustizia, deve, invece, fruire, in casi razionalmente giustificabili, di particolare trattamento.
Tale il caso (secondo questi concetti, qui ribaditi dalla Corte) dell’assistenza del pubblico ministero in tutta la fase istruttoria e compresa quindi, anche la fase di interrogatorio delle prove testimoniali, in considerazione che si tratta in ogni momento dell’esercizio di una funzione pubblica, da svolgere “super partes” a tutela di superiori interessi di giustizia obbiettiva.
Ciò non crea né privilegio ingiustificato né illegittima disparità di trattamento che contrasti con l’art. 3 della Costituzione.
Posto quanto sopra, la questione deve essere dichiarata non fondata anche sotto l’ulteriore profilo, dedotto nell’ordinanza del giudice istruttore di Pisa, nel senso che, per ripristinare la parità, basterebbe risolvere la questione riducendola al punto della esclusione dell’intervento del pubblico ministero, intervento che, invece, si giustifica di per sé, secondo i basilari motivi ora esposti.
96/1975
[…] Il pubblico ministero – anche se non é investito del potere decisorio onde non può qualificarsi giudice in senso stretto – é, comunque, anch’egli un magistrato, come dimostra la collocazione degli articoli della Costituzione che lo riguardano (in particolare da 104 a 107) nel titolo VI de “La Magistratura” e financo nella sez. de “L’ordinamento giurisdizionale”. L’esattezza dell’inquadramento del p.m. fra gli “organi della giurisdizione” in senso lato ha, del resto, già trovato conferma da parte di questa Corte, che, con sentenza n. 190 del 1970, ha testualmente definito la posizione del p.m. come quella, appunto, di un magistrato appartenente all’ordine giudiziario collocato in posizione di istituzionale indipendenza rispetto ad ogni altro potere che “non fa valere interessi particolari ma agisce esclusivamente a tutela dell’interesse generale all’osservanza della legge, perseguendo fini di giustizia”.
Da ciò deriva che nel concetto di “giurisdizione ” – quale contemplato nell’art. 102, che è il primo dei parametri costituzionali , di cui è dedotta la violazione – deve intendersi compresa non solo l’attività decisoria, che é peculiare e propria del giudice, ma anche l’attività di esercizio dell’azione penale, che con la prima si coordina in un rapporto di compenetrazione organica a fine di giustizia e che l’art. 112 della Costituzione, appunto, attribuisce al pubblico ministero.
88/1991
Va innanzitutto ricordato, al proposito, quanto questa Corte ebbe ad affermare nella sentenza n. 84 del 1979, cioè che “l’obbligatorietà dell’esercizio dell’azione penale ad opera del Pubblico Ministero… è stata costituzionalmente affermata come elemento che concorre
a garantire , da un lato, l’indipendenza del Pubblico Ministero nell’esercizi o della propria funzione e, dall’altro, l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge penale”; sicché l’azione è attribuita a tale organo “senza consentirgli alcun margine di discrezionalità nell’adempimento di tale doveroso ufficio”.
Più compiutamente: il principio di legalità (art. 25, secondo comma), che rende doverosa la repressione delle condotte violatrici della legge penale, abbisogna, per la sua concretizzazione, della legalità nel procedere; e questa, in un sistema come il nostro, fondato sul principio di eguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge (in particolare, alla legge penale), non può essere salvaguardata che attraverso l’obbligatorietà dell’azione penale.
2/1968
[…] Di regola lo Stato risponde civilmente solo se é amministrazione attiva e non se si presenta come legislatore o come giudice (nel qual caso soccorre il diverso istituto della riparazione dell’errore giudiziario): poiché è esclusa nei suoi confronti ogni azione di risarcimento dei danni derivanti da sentenze ingiuste, altrettanto sarà per gli atti del pubblico ministero, che indubbiamente appartiene all’ordine giudiziario.
La responsabilità statale – prosegue l’Avvocatura – sempre responsabilità diretta, inconcepibile dunque se l’atto dannoso sia opera di chi non é legato da un rapporto di dipendenza organica o comunque di chi, avendo commesso reato doloso, ha rotto ogni vincolo organico proprio con l’organizzazione dello Stato.
Articoli della Costituzione
Art. 104
La magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere.
Il Consiglio superiore della magistratura è presieduto dal Presidente della Repubblica.
Ne fanno parte di diritto il primo presidente e il procuratore generale della Corte di cassazione.
Gli altri componenti sono eletti per due terzi da tutti i magistrati ordinari tra gli appartenenti alle varie categorie, e per un terzo dal Parlamento in seduta comune tra professori ordinari di università in materie giuridiche ed avvocati dopo quindici anni di esercizio.
Art. 109
L’autorità giudiziaria dispone direttamente della polizia giudiziaria.
Art. 112
Il Pubblico ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale.
Codice penale
Art. 50
Azione penale
1. Il pubblico ministero esercita l`azione penale (112 Cost., 405) quando non sussistono i presupposti per la richiesta di archiviazione (408, 411, 415).
2. Quando non è necessaria la querela (336), la richiesta (342), l`istanza (341) o l`autorizzazione a procedere (343), l`azione penale è esercitata di ufficio.
3. L`esercizio dell`azione penale può essere sospeso o interrotto soltanto nei casi espressamente previsti dalla legge (3, 41, 47, 70, 71, 343, 344; ).
Art. 51
Uffici del pubblico ministero.
Attribuzioni del procuratore della Repubblica distrettuale
1. Le funzioni di pubblico ministero sono esercitate ( disp. di att.c.p.p.3):
a) nelle indagini preliminari e nei procedimenti di primo grado dai magistrati della procura della Repubblica presso il tribunale;
b) nei giudizi di impugnazione dai magistrati della procura generale presso la Corte di Appello o presso la Corte di Cassazione (570-3).
2. Nei casi di avocazione (53-3, 372, 412), le funzioni previste dal comma 1 lett. a) sono esercitate dai magistrati della procura generale presso la Corte di Appello. Nei casi di avocazione previsti dall`art. 371 bis, sono esercitate dai magistrati della Direzione nazionale antimafia .
3. Le funzioni previste dal comma 1 sono attribuite all`ufficio del pubblico ministero presso il giudice competente a norma del Capo II del Titolo I (655, 678-3).
3 bis. Quando si tratta di procedimenti per i delitti, consumati o tentati, di cui agli artt. 416 bis e 630 c.p., per i delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dal predetto art. 416 bis ovvero al fine di agevolare l`attività delle associazioni previste dallo stesso articolo, nonché per i delitti previsti dall`art. 74 del Testo Unico approvato con D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, le funzioni indicate nel comma 1 lett. a) sono attribuite all`ufficio del pubblico ministero presso il tribunale del capoluogo del distretto nel cui ambito ha sede il giudice competente .
3 ter. Nei casi previsti dal comma 3 bis se ne fa richiesta il procuratore distrettuale il procuratore generale presso la Corte di Appello può, per giustificati motivi, disporre che le funzioni di pubblico ministero per il dibattimento siano esercitate da un magistrato designato dal procuratore della Repubblica presso il giudice competente .
Art. 53
Autonomia del pubblico ministero nell`udienza. Casi di sostituzione
1. Nell`udienza, il magistrato del pubblico ministero esercita le sue funzioni con piena autonomia.
2. Il capo dell`ufficio provvede alla sostituzione del magistrato nei casi di grave impedimento, di rilevanti esigenze di servizio e in quelli previsti dall`art. 36 comma 1 lett. a), b), d), e). Negli altri casi il magistrato può essere sostituito solo con il suo consenso.
3. Quando il capo dell`ufficio omette di provvedere alla sostituzione del magistrato nei casi previsti dall`art. 36 comma 1 lett. a), b), d), e), il procuratore generale presso la Corte di Appello designa per l`udienza un magistrato appartenente al suo ufficio (372).
Art. 58
Disponibilità della polizia giudiziaria
1. Ogni procura della Repubblica dispone (327) della rispettiva sezione (56); la procura generale presso la Corte di Appello dispone di tutte le sezioni istituite nel distretto (9 att.; 83 ord. giud.; 6 att. ord. giud.).
2. Le attività di polizia giudiziaria per i giudici del distretto sono svolte dalla sezione istituita presso la corrispondente procura della Repubblica.
3. L’autorità giudiziaria si avvale direttamente del personale delle sezioni a norma dei commi 1 e 2 e può altresì avvalersi di ogni servizio o altro organo di polizia giudiziaria .
Art. 59 Subordinazione della polizia giudiziaria
1. Le sezioni di polizia giudiziaria (56) dipendono dai magistrati che dirigono gli uffici presso i quali sono istituite (83 ord. giud.; 6 att. ord. giud.).
2. L’ufficiale preposto ai servizi di polizia giudiziaria è responsabile verso il procuratore della Repubblica presso il tribunale dove ha sede il servizio dell’attività di polizia giudiziaria svolta da lui stesso e dal personale dipendente (13 att.; 6 att. ord. giud.).
3. Gli ufficiali e gli agenti di polizia giudiziaria sono tenuti a eseguire i compiti a essi affidati (16 att.). Gli appartenenti alle sezioni non possono essere distolti dall’attività di polizia giudiziaria se non per disposizione del magistrato dal quale dipendono a norma del comma 1.
Capitolo VIII
Precisazioni sul concetto di “Uguaglianza”
Fino ad ora abbiamo spesso citato l’espressione “Uguaglianza” o “Principio di uguaglianza dinnanzi alla legge”
Certo, tutti concetti fondamentali e determinanti ma sfortunatamente limitati da una certa ambiguità semantica.
Cosa significa realmente “uguaglianza”?
Qual è il suo significato profondo?
Esistono più interpretazioni relative a tale concetto?
Quali ambiti e dimensioni della società riguarda?
La domanda naturalmente potrebbero andare avanti all’infinito e molte delle quali suppongo non avrebbero nemmeno una risposta.
Tuttavia possiamo in questa sede cercare di offrire al lettore una semplice ma primaria distinzione, seppur a grandi linee.
Per farlo vorrei usufruire degli studi intrapresi su tale questione da un grande Docente di Filosofia del diritto come R. Dworkin.
Quest’ultimo, nel suo celebre testo dal titolo “Virtù sovrana” propone una distinzione fondamentale tra due dimensioni dell’Uguaglianza.
Da una parte l’Eguaglianza di benessere, dall’altra l’Eguaglianza di risorse.
Queste le definizioni specifiche offerte dal Dworkin:
“La prima sostiene che un piano distributivo tratta le
persone da uguali quando distribuisce loro risorse finché
nessun trasferimento ulteriori le renderà più uguali in
termini di benessere.
La seconda sostiene che un piano distributivo tratta le
persone da uguali quando distribuisce loro risorse finché
nessun trasferimento ulteriore renderà più uguali le singole
quoti di risorse.
Supponiamo per esempio che un uomo benestante abbia
molti figli: uno dei quali è cieco, uno è un playboy con
gusti dispendiosi, è un aspirante politico con aspirazioni
altrettanto dispendiose, un altro , un poeta con esigenze
modeste, un altro uno scultore che lavora con materiali
costosi e così via…
Come farà testamento?
Se aspira a realizzare l’uguaglianza di benessere terrà conto
delle differenze tra i suoi figli e lascerà loro quote diverse.
Se invece preferisce realizzare l’uguaglianza di risorse allora
potrebbe pensare che il criterio scelto sia quello dare ad
ognuno somme eguali.”
Dworkin proseguirà poi nel suo itinerario filosofico specificando maggiormente le differenze fra l’una e l’altra concezione e intrattenendo tutta la sua teorizzazione su un terreno non tanto giuridico quanto economico-sociale.
A noi però interessa in questa sede cogliere il significato generale ed astratto del suo argomentare.
L’autore sostanzialmente afferma che esistono due concetti di Uguaglianza.
La prima mette sullo stesso piano ogni cittadino e gli conferisce i medesimi diritti-doveri; essa viene nominata Uguaglianza di risorse.
L’altra distingue invece le persone a seconda di vari parametri (merito, bisogni, esigenze ecc.): essa assumerà il nome di Uguaglianza di benessere.
Nel primo caso siamo di fronte ad un concetto di uguaglianza più formale ed universalistico.
Nel secondo caso il concetto diventa invece maggiormente concreto ed individuale.
Non primo caso l’uguaglianza indosserà una veste giuridica.
Nel secondo essa si ammanterà di una sfera socio-economica.
L’Eguaglianza di risorse si configura in fin dei conti come la classica uguaglianza di fronte alla legge, quella cioè dove diritti e doveri (risorse innanzi allo Stato) sono previsti per ogni cittadino in modo paritetico e senza palesi differenze.
L’Eguaglianza di benessere appare come la condizione di parità non formale ma sostanziale dei cittadini nel loro diritto al raggiungimento del successo.
Nella prima visione sono determinanti elementi come: diritto al voto, diritti di pensiero e parola, obbligo di rispettare le leggi, inviolabilità della persona, dovere di non produrre falsa testimonianza ecc.
Nella seconda concezione appaiono al contrario fondamentali presupposti come: meritocrazia, carriera, successo, arricchimento… (su un piano personale); stato sociale, solidarietà, appartenenza, integrazione… (su un piano sociale).
Se dovessimo contestualizzare queste differenze all’interno delle tesi generali di questo testo potremmo affermare che l’Eguaglianza di risorse è compresa nella “dimensione strutturale” della Democrazia mentre l’Eguaglianza di benessere è contemplata nella sfera qualitativa della Democrazia medesima.
La prima ne rappresenta un Principio supremo, la seconda un Parametro.
Posto in forma schematica potrebbe essere così raffigurato:
Democrazia Carattere Dimensione Riferimento
Uguaglianza di risorse Base formale giuridica P. Supremo
Uguaglianza di benessere Qualità sostanziale socio/economica Parametro
Nei precedenti capitoli si è fatto riferimento all’Uguaglianza di fronte alla legge garantita dall’Indipendenza del Pm.
Ecco, da questo punto di vista, va precisato che ci si riferiva all’Eguaglianza di risorse, nell’ottica interpretativa di Dworkin.
Ovvero ci si riferiva dell’uguaglianza di tipo giuridico-formale.
Capitolo IX
Interrogativi giuridico-esistenziali
Fin qui abbiamo impostato tutta la nostra riflessione su una dato di fatto, su una certezza che davamo per scontata.
Ovvero abbiamo strutturato il discorso sulla convinzione che l’Indipendenza dei Pubblici Ministeri non fosse tutelata da una norma sovra-costituzionale.
Abbiamo dato per scontato che l’autonomia della Magistratura Inquirente, a differenza di quella Giudicante, non fosse un Principio supremo.
Tale convinzione scaturiva dal fatto che nessuna fonte ufficiale offriva precise indicazioni in merito.
Nella Costituzione non si parla di questo Principio, nessuna sentenza della Consulta chiarifica la questione mentre Dottrina e Giurisprudenza non danno orientamenti definitivi.
Inoltre abbiamo spesso ricordato che a parte l’Italia (e forse Portogallo) nessun altro Paese al mondo gode dell’autonomia della M. Inquirente.
Stando così le cose è quasi spontaneo, quasi automatico dare per scontato che questa Indipendenza non è coperta da nessun Principio supremo.
E se così non fosse?
E se per ipotesi fosse tutto un fraintendimento?
E se esistesse veramente una qualche tutela sovra-costituzionale?
Da un punto di vista puramente logico infatti il semplice fatto che nelle fonti ufficiali e all’estero non vi siano tracce di tale Principio supremo non implica necessariamente che esso non sussista.
Teoricamente questa Tutela può esistere ed essere legittima anche se non codificata in contesti giuridici noti e ufficiali.
Ipotizziamo per un attimo che quel Principio supremo esista, ipotizziamo per un secondo che l’Autonomia del Pubblico Ministero sia garantita da un qualche precetto sovra-costituzionale.
Se fosse così dovrebbe comunque essere legittimato da un qualche entità o derivante da un qualcosa.
Naturalmente non può essere campato per aria.
Deve necessariamente avere una qualche appiglio giuridico o para-giuridico, deve per forza di cose essere ancorato ad una qualche legittimità filosofica o concettuale.
È in questo momento che dobbiamo utilizzare, come unica Fonte possibile,
un elemento individuato già nel libro che fa da prologo e proemio all’attuale (La Base della Democrazia) e riportato alla mente nel primo capitolo.
Mi sto riferendo ovviamente ai cosiddetti Principi Assoluti.
Essi fanno riferimento ad una ipotetica dimensione pre-giuridica ma al tempo stesso contemplata da un particolare orientamento dottrinale.
Sto parlando del famoso Giusnaturalismo.
Concetto questo che racchiude tutte quelle dottrine filosofico-giuridiche che affermano l’esistenza di un “diritto naturale”, ovvero un insieme di norme derivanti dalla natura stessa senza legittimazioni ulteriori.
Il concetto opposto viene invece detto Positivismo giuridico, dottrina secondo la quale invece non esiste nessun fondamento naturale al diritto.
Ora, in questa sede, non ci occuperemo del secondo orientamento ma daremo solo alcuni cenni relativi al primo.
Il Giusnaturalismo per l’appunto parte dal presupposto che esistano in natura dei diritti e dei principi sacri ed inviolabili riferiti ad ogni uomo e necessari in ogni organizzazione sociale.
Questi diritti e principi valgono per ogni essere umano e sono giusti e sacri per natura.
La loro validità non può in nessun modo essere messa in dubbio.
Di conseguenza le legislazioni delle singole società sono tenute ad applicarli e difenderli.
In realtà è impossibile darne un elenco ufficiale e completo, possiamo solo intuirne i più significativi.
È lecito supporre che siano:
– l’eguaglianza dinnanzi alla legge
– la laicità dello stato
– il diritto al voto
– i diritti umani (pensiero, parola ecc.)
– il diritto all’incolumità psico-fisica
– il diritto alla proprietà privata
– necessità di sanzionare chi trasgredisce
Ed altri ancora; ne ho svolto una trattazione più completa nel testo precedente (La base della Democrazia).
Alcuni interessanti appigli giuridico-concettuali ci vengono però offerti da un grande studioso dalla materia: H. Hart.
Il giurista inglese, pur essendo un vicino a tesi differenti (positivismo g.), ci offre una importante definizione di Giusnaturalismo:
“[…] è la concezione secondo cui esistono certi principi
della condotta umana che attendono di essere scoperti
dalla ragione umana con i quali la legge umana deve
conformarsi se viole essere valida.”
Hart continua poi la trattazione approfondendo filosoficamente la questione e sostenendo che:
“[…] La dottrina del diritto naturale è parte di una
concezione più antica della natura per la quale il
mondo osservabile non è soltanto la scena di questa
regolarità […] viceversa ogni tipo classificabile di
cose è concepito non soltanto come teso a conservarsi
nella propria esistenza ma come rivolto vero una
definita condizione ottima che è lo specifico bene.”
Hart infine ci offre anche una serie di condizioni storico-concettuali atte a determinare la teorizzazione di tale dottrina:
– Vulnerabilità umana
le normali esigenze del diritto e della morale consistono
nella maggior parte non in servizi attivi che si devono
prestare ma in omissioni che vengono formulate in forma
negativa come proibizioni.
Di queste le più importanti per la vita sociale sono
quelle che limitano l’uso della violenza nell’uccidere
nell’infliggere un danno corporale.
– Uguaglianza approssimativa
gli uomini differiscono tra loro in forza fisica, agilità
e capacità intellettuali.
Tuttavia anche il più forte deve dormire qualche volta
e, quando è addormentato, perde temporaneamente la
propria superiorità.
Questo fatto dell’uguaglianza approssimativa rende ovvia
la necessità di un sistema di reciproche astensioni dalla
violenza.
– Altruismo limitato
Gli uomini non sono demoni dominati dal desiderio di
sterminarsi a vicenda e hanno un interesse altruistico
al benessere e alla sopravvivenza dei loro compagni.
– Risorse limitate
è un fatto meramente contingente che gli esseri umani
hanno bisogno di cibo, di vestiti e di un tetto: e che
questi non sono alla loro portata in quantità senza
limiti ma sono scarsi e devono essere fatti crescere e
venire conquistati dalla natura.
Le forme più semplici di proprietà si possono vedere
nelle norme che escludono le persone in generale,
tranne il proprietario dall’ingresso in un dato territorio.
– Comprensione e forza di volontà limitate
i fatti che rendono necessari nella vita sociale le
norme che proteggono le persone sono semplici ed i
loro reciproci benefici sono ovvi.
Le sanzioni non sono perciò necessarie come motivo
normale dell’obbedienza ma come garanzia che coloro
i quali sono disposti ad obbedire volontariamente non
vengano sacrificati a coloro che non sono disposti a farlo.
Da questi brevi passi emerge dunque la presenza di una ipotetica dimensione filosofico-esistenziale che fa da sfondo ad una precisa esigenza giuridica.
L’esigenza di fondare la legislazione di una società su precisi pilastri inviolabili.
Questi pilastri possono essere a loro volta chiamati o configurati come Principi Assoluti o Naturali.
Sono una sorta di fondamenti epistemologici inviolabili e giusti per natura sui quali porre le basi di ogni ordinamento giuridico.
Tra l’altro molti Principi supremi sono anche Assoluti, c’è una sorta di compenetrazione tra i due… basti pensare al diritto al voto, i diritti umani, la laicità dello Stato ecc.
In fondo se ci pensiamo ogni Principio Assoluto o Inviolabile o di Natura trae la sua origine da una “domanda”.
Una domanda che ognuno di noi deve porre a se stesso e alla propria intima coscienza.
Una domanda democratica.
Dalla risposta a quella domanda scaturiscono tali Principi.
Facciamo degli esempi schematici:
a) chi è che deve decidere chi mi governa? Un re o il popolo?
(da qui scaturisce il diritto al voto)
b) ci devono essere persone intoccabili o tutti dobbiamo essere uguali dinnanzi alla
legge?
(da qui scaturisce il l’eguaglianza dinnanzi alla legge)
c) qualcuno deve imporre limiti alla mia libertà e dignità oppure ho il diritto di essere
libero?
(da qui scaturisce il diritto di pensiero, parola ecc.)
Per ovvi motivi la Magistratura Giudicante deve assolutamente godere della massima indipendenza (chi mi giudica non può essere controllato da qualcuno).
Quindi l’autonomia dei Giudici è coperta dal Principio supremo ed Assoluto al tempo stesso.
Per capire o meglio per intuire se anche l’autonomia dei Pubblici Ministeri rientra nei Principi di Natura (Assoluti) dobbiamo porci la seguente domanda:
“Chi persegue i reati deve essere controllato da qualcuno?”
o se preferite:
“Chi controlla la legge deve essere controllato?”
Ecco, ognuno di noi ha il diritto/dovere di cercare una risposta alla suddetta domanda…
Naturalmente la risposta va cercata nella propria coscienza e non nei propri interessi.
Vorrei concludere citando una frase pronunciata dal Presidente della Repubblica:
“L’autonomia e l’indipendenza della magistratura costituiscono principi inderogabili in rapporto a quella divisione tra i poteri che è parte essenziale dello Stato di diritto”
(5 aprile 2011)
Capitolo X
Brevi conclusioni
Nel precedente capitolo abbiamo ipotizzato la possibilità di una effettiva copertura dell’Indipendenza della Magistratura inquirente da parte di uno specifico Principio supremo.
Ora, posto che solo la Corte Costituzionale può dirimere questo dubbio e che fino alla pronuncia di una siffatta sentenza quel Principio supremo non esiste, possiamo però continuare a porre ipotesi.
Questo non ce lo vieta nessuno.
Ebbene, ipotizziamo che un bel giorno la Consulta per un x motivo sancisca l’inviolabilità della Autonomia del Pm con apposita sentenza.
Supponiamo inoltre, in via del tutto ipotetica, che in un secondo momento si ponga in essere una Revisione costituzionale che, attraverso la separazione delle carriere, metta sotto controllo i Pubblici ministeri e li renda privi della loro Indipendenza.
Supponiamo infine che tale Revisione costituzionale sia assolutamente legittima sotto il profilo giuridico-procedurale con tanto di approvazione popolare tramite Referendum.
Ecco: a quel punto cosa dovrebbe fare la Consulta?
Dovrebbe accettare tale modifica, allineandosi al volere del Parlamento e del Popolo?
Oppure…
Dovrebbe rendere nulla quella modifica, ergendosi a supremo garante di un Principio supremo dell’ordinamento democratico?
Detto in altri termini: cosa conta di più in Democrazia, la Volontà popolare o il rispetto dei Principi supremi?
Una cosa la so: non vorrei stare nei panni della Corte costituzionale.
Bibliografia
B. Tinti, La questione immorale, Chiarelettere, Milano, 2009
N. Zanon, Il sistema costituzionale della magistratura, Zanichelli, Bologna, 2011
G. Zagrebelsky, Principi e voti, Einaudi, Torino, 2005
F. Moroni, Soltanto la legge, Effepi Libri, Roma, 2005.
E. Bruti Liberati, Giustizia e Referendum, Donzelli Editore, Roma, 2000.
R. Corona, La specializzazione dei magistrati e la separazione delle carriere, G. Giappichelli editore, Torino, 2005.
G. Silvestri, Giustizia e Giudici nel sistema costituzionale, G. Giappichelli editore, Torino, 1997.
H. L. A. Hart, Il concetto di diritto, Einaudi, Torino, 2002
R. Dworkin, Virtù sovrana. Teoria dell’uguaglianza, Feltrinelli, Milano, 2002
M. Scarponi, La base della Democrazia, Edizioni Simple, Macerata, 2010