Baby gang ai lavori sociali
di Nicola Quatrano
Terzo. È terribile la violenza subita da Arturo, come anche quella delle altre giovani vittime di atti insensati e crudeli. C’è dietro una crisi educativa e un senso di impunità, come ha detto Cazzullo, ma non solo. È che anche gli autori di questi gesti imperdonabili sono e si sentono vittime di una forma di violenza, di un’emarginazione sociale che produce rancore. Non intendo giustificarli. Penso anzi che la questione sia ancora più grave di quanto appaia. Penso che ci sia oggi nel mondo una questione letteralmente esplosiva, ed è la questione giovanile.
Se un ragazzino di origine araba se ne va in centro, a Parigi, sa che verrà controllato ripetutamente perché ha la pelle olivastra. Non è solo razzismo, lo prevedono i protocolli ispirati alle statistiche sui comportamenti criminali. Lo stesso circolo vizioso funziona negli Stati Uniti coi giovani Neri, anch’essi controllati più dei bianchi (e qualche volta uccisi). E con gli hooligan, in guerra permanente contro altri ragazzi che indossano la divisa. Poi ci sono quelli delle periferie napoletane che, fin da piccoli, sono svegliati in piena notte dalle irruzioni della Polizia nelle case del quartiere, e fanno esperienza del carcere andando a trovare familiari o amici. Questi bambini sanno di non far parte del mondo bello e colorato che risplende in tv o nelle vie del centro. E questa estraneità trova conferme nelle esperienze frustranti di una scuola che spesso e volentieri li butta fuori e, adesso, pure nella minaccia di strapparli alla famiglia «mafiosa». Si aggiunga che, in Italia, la povertà giovanile è cresciuta, dal 2010 al 2015, del 12,9%. Ecco la radice del rancore, e degli atti di teppismo. Che diventa anche peggio quando qualcuno decide di investirci sopra.
Quando a investire sono le reti wahhabite dell’Arabia Saudita o dei Fratelli Mussulmani, nascono i foreign fighter. Quando sono i cartelli della droga, ecco le gang del narcotraffico. Al di là delle evidenti differenze, i due fenomeni si somigliano, almeno per il profilo dei protagonisti: tutti giovani delle periferie emarginate che, nel jihad o nelle droghe, vedono l’unica occasione loro offerta per sottrarsi ad un destino segnato. Di povertà ed emarginazione certo, ma anche di oscurità assoluta in un mondo in cui bisogna brillare come le vedette dello spettacolo. Un’occasione per essere qualcuno, e forse anche per diventare martiri e vivere in eterno, come Emanuele Sibillo che oggi è un nuovo San Gennaro.
Quarto. Che fare? Non certo perdonare. La fatuità è parte del problema e la sanzione può aiutare a crescere. Ma il carcere è il contrario della responsabilizzazione, ed è uno stigma che si aggiunge all’ esclusione. Meglio provare con lavori di pubblica utilità o comunità di socializzazione. Ma è soprattutto il contesto ambientale che va curato, e qui viene il difficile. Non ci sono ricette, c’è piuttosto un tessuto morale, civile e culturale da ricostruire. C’è bisogno di scuola, come dice il ministro Orlando. Ma non quella che boccia i bambini difficili, piuttosto quella di Don Milani, magari con un custode che la protegga dalle razzie. E di lavoro e sviluppo. Intanto cominciamo a considerare il disagio dei giovani delle periferie come una malattia anche nostra. In ognuna delle coltellate inferte al povero Arturo c’era un po’ della nostra inerzia, della nostra indifferenza, c’era l’assenza della politica e l’incapacità delle classi dirigenti. E il drammatico scarto tra le domande poste da questa globalizzazione del rancore giovanile e il nostro penoso farfugliare.