Caino abbandonato. Il grido d’aiuto delle carceri al Capo dello Stato.

Il problema della situazione carceraria italiana ha costituito recentemente oggetto di rinnovata attenzione da parte del Capo dello Stato, Giorgio Napolitano, il quale ha invitato a tornare a riflettere su uno dei problemi attualmente più spinosi per il Bel Paese, ossia quello legato all’intollerabilità del sovraffollamento delle strutture. Egli ha, infatti, fatto visita alla casa circondariale di San Vittore, a Milano, emblema della gravità ed emergenza della situazione carceraria.
Ma vediamo quali sono i motivi di tale allarmismo e quali le ragioni che hanno portato la Corte Europea dei diritti umani ha condannare il nostro Paese per danni morali ai detenuti.
Innanzitutto si parte dai numeri: in Italia vi sono 66.000 presenze in carcere a fronte di una capienza regolamentata di 43.000 unità. La situazione è giunta a una fase di profonda regressione che rende di sicuro le strutture inadatte al dettato costituzionale, ma anche allo stesso ordinamento penitenziario. L’Italia per questo è stata anche più volte ripresa dal Consiglio Europeo. Uno studio del dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria rileva, poi, che circa la metà dei detenuti è costituito da persone in attesa di giudizio e si stima che circa il 30% di loro verrà assolto. All’interno delle strutture troviamo spesso un unico psicologo in quanto a livello nazionale a fronte di 66.000 detenuti abbiamo unicamente 332 psicologi. Per altro l’insufficienza di organico caratterizza un po’ tutti i settori della vita carceraria a partire dal personale di polizia penitenziaria per arrivare agli educatori. Allarmante è poi la presenza di sieropositivi detenuti senza ricevere le opportune cure o di tossicodipendenti, per i quali il sistema di misure alternative è completamente bloccato. Essi, certo, non potranno essere curati dalla detenzione ed il tasso di recidiva all’uscita è ben più alto che se avessero ricevuto l’aiuto adeguato.
Il carcere, inoltre, non risolve affatto il problema dei detenuti stranieri per quanto riguarda il loro reinserimento nella società o la risoluzione della situazione di irregolarità, per i quali andrebbero probabilmente pensate strutture di accoglienza apposite.
La pena non nasce come strumento giuridico in risposta alla violazione di un precetto penale, ma come forma di vendetta istintiva, una forma di sopravvivenza,di riaffermazione della collettività sugli strumenti di prevaricazione interna. L’evoluzione di tale concetto avviene nel periodo post Romano e Medievale, grazie anche all’incontro con la Chiesa. La svolta definitiva,poi, giunge durante l’Illuminismo e con lo sviluppo del Giusnaturalismo e dell’affermarsi di una vera e propria concezione di Stato; la pena trova qui una sua ragion d’essere e una sua precisa collocazione grazie al “contratto sociale”. Essa non appartiene più a questo punto a tutto quel substrato sociale fatto di suggestioni e prevaricazioni, espressioni di forza, ma viene regolamentata secondo principi razionali ed utilitaristici. In questo contesto un notevole contributo viene offerto da Cesare Beccaria il quale pubblica nel 1764 il suo famoso “Dei delitti e delle pene”, predecessore di clamorose vicissitudini storiche, la più famosa tra tutte: la Rivoluzione Francese.
Molteplici sono stati i teorizzatori della ratio a fondamento della sanzione penale: già i Classici teorizzarono l’intramontabile bipartizione tra il “ne peccetur”, e quindi una funzione di prevenzione da un male futuro, abbracciata tra gli altri da Beccaria e Lombroso; e il “quia peccatum” ossia una concezione retributiva, di riparazione di un male passato, supportata soprattutto da Kant.
Al giorno d’oggi Bettiol definisce la sanzione penale come “la conseguenza giuridica di un reato, cioè la sanzione predisposta per la violazione di un precetto penale”. In senso lato possiamo affermare che essa consiste in ogni provvedimento minacciato da un potere efficace a chi violi i suoi precetti e volta a privare il soggetto di un bene che altrimenti il diritto stesso rispetterebbe. Questo bene è in particolar modo la libertà personale, tutelata nel nostro ordinamento a livello costituzionale dall’art.13 e suscettibile di limitazioni solo laddove venga violato un valore dell’ordinamento considerato di pari o superiore livello.
Dottrina prevalente e giurisprudenza della Corte Costituzionale arrivano, oggi, ad affermare una pluridimensionalità della pena: essa non è retributiva o preventiva, è tutto questo e molto di più, vi si aggiunge un finalismo rieducativo. Le caratteristiche sancite in Costituzione sono quelle dell’indefettibilità, determinatezza, legalità (principio che si articola in riserva di legge, tassatività, irretroattività) – art.25 Cost. (art.49 Carta di Nizza) -; proporzionalità, personalità – art.27 Cost.- . La pena, dunque, può essere prevista come tale solo dalla legge o da un atto avente forza di legge, il legislatore deve indicare il tipo di pena e la misura tra un minimo e un massimo in modo che essa possa poi essere individualizzata. Non sono ammessi trattamenti contrari al senso di umanità e vige il divieto per la pena di morte. Una forte espressione di tutela dei diritti fondamenti dell’uomo anche in relazione al processo la troviamo poi negli artt. da 2 a 7 della Cedu (Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali) nella quale si affermano il diritto alla vita, il divieto della tortura, della schiavitù, del lavoro forzato, nonché il diritto alla libertà, alla sicurezza, a un processo equo e molto altro ancora. La nostra Corte Costituzionale si è inoltre espressa riguardo al principio di legalità e proporzionalità con le sentenze 299/1992 e 341/1994 e riguardo alla finalità rieducativa con le sentenze 313/1990 e 306/1996 affermando l’assolutezza di questi principi, che sempre devono funzionare da criterio guida per giudice e soprattutto legislatore.
Per quanto attiene alla scelta del carcere come privilegiata forma storica della pena, esso nasce come luogo di detenzione provvisorio per soggetti in attesa di giudizio ed acquista natura autonoma solo con l’illuminismo. Questa è la forma di sanzione che più sembrava rispecchiare le istanze di uguaglianza e rieducazione. Il tempo e l’applicazione storica di tale sanzione sembrano, tuttavia, contraddire tali impressioni e un’accurata analisi del problema potrebbe portare oggi ad un superamento della stessa in favore di nuove forme punitive che maggiormente rispecchino le esigenze di rieducazione e reinserimento sociale oltre che di retribuzione e prevenzione. Sarebbe, pertanto, auspicabile una rivalutazione considerevole delle misure alternative alla detenzione sia così come previste dalla legge Gozzini sia anche nell’ottica di una loro futura rielaborazione nonché potenziamento. Il tasso di recidiva nei casi di misure alternative è molto basso e questo favorirebbe oltre che la sicurezza sociale anche la sconfitta del c.d. “ozio dei detenuti” avviandoli verso lavori socialmente utili a vantaggio dell’intera comunità e del loro reinserimento.
E’ vero che la pena dunque serve alla società in quanto potrà riappacificarsi con il reo solo in quanto essa sia stata ritenuta la più giusta, ma la pena serve anche al reo stesso per alleviare la propria sofferenza: Caino deve essere chiamato a rispondere perché questo gli consentirà di tornare a vivere. L’utilità della pena non è solo per la società che a pieni polmoni invoca giustizia, ma anche per il reo che attraverso di essa potrà, almeno teoricamente, tornare a essere Uomo in mezzo ai suoi pari, tornare appunto a vivere. Purtroppo, però, la prassi è ancora quella secondo la quale dopo la comminazione e commisurazione della pena la porta dell’aula di tribunale si chiude alle spalle del condannato e più nulla viene fatto in relazione all’esecuzione della stessa.
Si tratta di una situazione deplorevole e contraria a ogni senso di umanità.
Alla luce di quanto detto finora è possibile rileggere un altro grave problema poche volte messo in evidenza dai giornali e dalla politica, quello delle morti sospette e dei suicidi in carcere sul quale fa enorme chiarezza il dossier “morire di carcere 2000-2010” riportato sul sito www.ristretti.it. In Italia muoiono più di 1500 detenuti l’anno di cui circa 1/3 per cause naturali (viste le scarse condizioni sanitarie carcerarie), 1/3 per suicidio e un 1/3 per cause da accertare, ossia tutti quei casi in cui viene aperta un’inchiesta giudiziaria. Questo dossier ha l’obiettivo di far uscire dall’anonimato queste cifre restituendo loro un volto,un luogo,una storia, un’identità. La peggiore infezione che attanaglia questi episodi è, infatti, l’omertà e l’occultamento della verità avvallato da mass media e autorità.
Bisognerebbe, dunque, stracciare il velo dell’ignoranza e passare a riforme che riducano i tempi di custodia cautelare, garantiscano i diritti dei detenuti, depenalizzino reati minori e introducano sanzioni alternative, permettano una maggiore coltivazione degli affetti familiari e molto altro ancora. Utopia?
Vedremo se le voci politiche attualmente in campo sapranno riflettere seriamente su quella che è stata definita da Napolitano stesso “una delle condizioni essenziali dello Stato di diritto”.
Beatrice Marini