La scomunica papale
Al fine di rendere più semplice la comprensione di questo istituto del diritto canonico è opportuno individuarne gli elementi caratterizzanti e delineare l’evoluzione che ha subito nel corso dei secoli.
La scomunica (dal latino tardo excomunicare, «escludere dalla comunità dei fedeli») è la punizione destinata a un cattolico che abbia peccato gravemente sul piano morale o su quello della fede. Comporta l’esclusione dal diritto di ricevere o amministrare i sacramenti e, quindi, dalla comunità dei fedeli (cioè la Chiesa). Il provvedimento decade con l’assoluzione, che lo scomunicato può ottenere se dimostra un sincero pentimento. Esistono due gradi di scomunica, una maggiore che colpisce i cosiddetti vitandi (coloro che vanno evitati a causa di gravi errori), e una minore che colpisce i tolerati (i tollerati). Si definiscono latae sententiae (sentenze emesse) quelle scomuniche (automatiche) nelle quali si incorre solo per il fatto di aver commesso alcuni peccati particolarmente gravi e non è necessario che vengano esplicitamente comminate da un ente ecclesiastico. Alcuni dei peccati per i quali si incorre in scomuniche di questo tipo sono la profanazione dell’ostia e del vino consacrati per la comunione; la violenza fisica contro il pontefice; l’ordinamento di un vescovo senza l’approvazione del papa; l’aborto; l’eresia, che consiste nella contestazione di dogmi ufficiali della religione cattolica; lo scisma, cioè la separazione dall’autorità della Chiesa di Roma; l’apostasia, cioè l’abiura pubblica e solenne del proprio credo.
Per alcuni di questi peccati, come la profanazione dell’ostia e del vino consacrati e la violenza fisica contro il papa, la scomunica è riservata alla Santa Sede, nel senso che solo per diretta autorità del papa essa può essere sciolta.
La scomunica è stata molto praticata durante l’età medievale e moderna.
Nel Medioevo la scomunica divenne uno strumento di potere: spesso i pontefici la usarono contro imperatori e nemici politici per indebolirne l’autorità. Se, infatti, un imperatore o un re veniva scomunicato, i sudditi erano automaticamente esonerati dall’obbligo di obbedirgli.
Celebre è il caso dell’imperatore Enrico IV (1050- 1106), deposto e scomunicato da papa Gregorio VII nell’ambito della decennale lotta per le investiture che vide contrapposti Impero e Papato. Enrico IV, temendo una rivolta dei sudditi, decise di chiedere il perdono del papa, umiliandosi al punto di aspettare per tre giorni sotto la neve davanti al castello di Matilde di Canossa, dove in quel momento si trovava ospite Gregorio VII (1077).
Celebre è anche la scomunica che colpì Federico II di Svevia il 23 marzo 1228 perché continuava a rimandare la crociata per la quale si era impegnato. All’adempimento dell’impegno la scomunica venne annulata (28 agosto 1230).
Originariamente la scomunica era comminata ad personam, cioè a singoli individui la cui condotta era giudicata contraria alla morale cristiana e alla teologia. Nel XIII seccolo, di fronte al diffondersi delle eresie, essa veniva anche inflitta, genericamente, a tutti coloro che non rispettavano un ordine impartito dalla Chiesa. Allo stesso tempo, il campo di applicazione della scomunica si estese, ed essa finì persino per colpire i debitori, facendo enormemente salire il numero degli scomunicati. E così, il prete, ogni domenica, durante la messa, recitava la lista dei cattivi cristiani, obbligati a uscire dalla chiesa prima dell’eucarestia. Questo uso indiscriminato riversò sulla scomunica un’ondata di impopolarità che indebolì il prestigio delle autorità ecclesiastiche. Nel suo attacco alla Chiesa di Roma, Lutero ebbe buon gioco nel condannare la scomunica come un simbolo della «tirannia» e dell’«ignoranza» del clero.
Facendo un balzo in avanti di qualche secolo è interessante esaminare un decreto della Sacra congregazione del Sant’Uffizio del 15 luglio 1949.
«È stato chiesto a questa Suprema Sacra Congregazione: 1. Se sia lecito iscriversi al partito comunista o sostenerlo; 2. se sia lecito stampare, divulgare o leggere libri, riviste, giornali o volantini che appoggino la dottrina o l’opera dei comunisti, o scrivere per essi; 3. se possano essere ammessi ai Sacramenti i cristiani che consapevolmente e liberamente hanno compiuto quanto scritto nei numeri 1 e 2; 4. se i cristiani che professano la dottrina comunista materialista e anticristiana, e soprattutto coloro che la difendono e la propagano, incorrano ipso facto nella scomunica riservata alla Sede Apostolica, in quanto apostati della fede cattolica.
Gli Eminentissimi e Reverendissimi Padri preposti alla tutela della fede e della morale, avuto il voto dei Consultori, nella riunione plenaria del 28 giugno 1949 risposero decretando: 1. negativo: infatti il comunismo è materialista e anticristiano; i capi comunisti, sebbene a volte sostengano a parole di non essere contrari alla Religione, di fatto sia nella dottrina sia nelle azioni si dimostrano ostili a Dio, alla vera Religione e alla Chiesa di Cristo; 2. negativo: è proibito dal diritto stesso (cfr. can. 1399 del Codice di Diritto Canonico); 3. negativo, secondo i normali princìpi di negare i Sacramenti a coloro che non siano ben disposti; 4. affermativo.
Il giorno 30 dello stesso mese ed anno il Papa Pio XII, nella consueta udienza all’Assessore del Sant’Uffizio, ha approvato la decisione dei Padri e ha ordinato di promulgarla nel commentario ufficiale degli Acta Apostolicae Sedis».
Il decreto portava la data del 1° luglio. Fu pubblicizzato nelle parrocchie italiane e fu quindi conosciuto in concreto dai fedeli, mediante un manifestino che non era uguale dappertutto e soprattutto ometteva spesso di citare le disposizioni tecniche del decreto, quelle che precisavano che l’iscrizione o l’appoggio dovevano essere stati compiuti «consapevolmente e liberamente» e che la non ammissione ai sacramenti era condizionata dai «normali principi di negare i Sacramenti a coloro che non siano ben disposti». Non sono come vedremo, particolari da poco.
La stessa Congregazione del Sant’Uffizio pubblicò dieci anni più tardi, il 4 aprile 1959, un Dubium in «Acta Apostolicae Sedis» con lo scopo di chiarire il senso e la portata del precedente decreto, aggiornandolo alle mutate condizioni politiche:
«È stato chiesto a questa Suprema Sacra Congregazione se sia lecito ai cittadini cattolici dare il proprio voto durante le elezioni a quei partiti o candidati che, pur non professando princìpi contrari alla dottrina cattolica o anzi assumendo il nome cristiano, tuttavia nei fatti si associano ai comunisti e con il proprio comportamento li aiutano. I Cardinali preposti alla tutela della fede e della morale risposero decretando: negativo, a norma del Decreto del Sant’Uffizio del 1/7/1949, numero 1. Il giorno 2 aprile dello stesso anno il Papa Giovanni XXIII, nell’udienza al Pro-Segretario del Santo Ufficio, ha approvato la decisione dei Padri e ha ordinato di pubblicarla».
Possiamo subito osservare che, come per la Veterum Sapientia, questa approvazione da parte del papa che avrebbe scritto la Pacem in terris appartiene alla serie non piccola degli atti ‘contraddittori’ di questo pontefice. Ma al problema che sorge dalla discrepanza tra questo gesto di Giovanni XXIII e gli orientamenti generali del suo pontificato è difficile dare una risposta che non sia banale. Mancano infatti le pezze di appoggio documentarie.
Anche il decreto di condanna del 1949 non è di facile interpretazione, per il semplice motivo che non conosciamo, essendo secretati gli atti relativi, né le circostanze concrete della riunione in cui venne approvato il decreto, né le fasi della sua preparazione o la motivazione che condusse all’iniziativa stessa. Infatti, non era implicitamente scontata quest’ennesima condanna del comunismo. Questa di per sé non era una novità, semmai lo era la dichiarazione di colpevolezza di quanti, pur non condividendone la dottrina, si iscrivevano al partito e collaboravano in vario modo all’azione del partito stesso. Per tentare di capire il significato dell’evento dobbiamo quindi procedere per approssimazione, approfondendo tre aspetti: la portata giuridica, il contesto storico, le conseguenze pratiche.
- LA PORTATA GIURIDICA DEL DECRETO
Il documento consta di due parti ben distinte che vanno comprese in relazione al codice di diritto canonico allora vigente e in particolare al diritto penale della Chiesa ai cui canoni il documento si riferisce esplicitamente. È bene cominciare dalla seconda parte, laddove si commina la scomunica riservata alla sede apostolica a quanti «professano la dottrina comunista materialista e anticristiana, e soprattutto (a) coloro che la difendono e la propagano, in quanto apostati della fede cattolica». Il caso è riconducile al can. 2314, che prevede appunto la scomunica riservata speciali modo alla Sede apostolica per gli apostati. Viene cioè configurata come apostasia della fede la dottrina comunista in quanto materialista e anticristiana. Il fatto che il comunismo venga configurato come apostasia della fede cattolica e non come semplice movimento sovversivo va notato in maniera particolare, perché corrisponde all’evoluzione stessa degli atteggiamenti romani nei suoi confronti.
Infatti, a partire da Pio IX e fino a Benedetto XV, la connotazione prevalente del comunismo agli occhi del magistero romano è quella di una dottrina «nefanda e quanto mai contraria allo stesso diritto naturale […] che una volta ammessa porterebbe allo sconvolgimento radicale dei diritti di tutti, dei beni, delle proprietà e della stessa società umana». Guardando bene al testo ci si accorge che il comunismo è uno dei tanti errori dell’epoca moderna «che tentano accanitamente di assalire la divina autorità della chiesa e le sue leggi e di calpestare i diritti tanto del potere sacro quanto di quello civile», assieme alle sette protestanti, alle società bibliche, alle società segrete, all’indifferentismo religioso. L’attenzione al comunismo è cioè diluita dentro la considerazione radicalmente negativa dell’epoca moderna, cara all’apologetica della Restaurazione, ma non è oggetto di attenzione particolare. E anche quando nell’enciclica Nostis et nobiscum del 1849, riservata alla situazione italiana, il papa dedica molto più spazio alle «stolte e pericolose invenzioni del comunismo e del socialismo», l’orizzonte delle sue preoccupazioni rimane identico: la constatazione preoccupata per il fatto che «gli odierni nemici di Dio e dell’umana società non lasciano intentato qualsivoglia artificio per affievolire e distruggere nel cuore degli Italiani l’ossequio che portano a noi e alla Santa Sede». Questa impostazione è quella che prevale per lungo tempo, alimentata oltretutto dai moti rivoluzionari del 1848. È ancora la stessa posizione che sarà ripresa nella Quanta cura (1864), sempre con la motivazione che il carattere sovversivo sia in relazione alla negazione del ruolo della religione nella società e del principio di autorità.
Leone XIII introduce una novità nella condanna del comunismo, nella misura in cui, oltre alla condanna, si fa latore al tempo stesso di un progetto positivo e concorrente nei confronti della questione sociale. Ma l’opposizione che viene stabilita tra comunismo e dottrina sociale cristiana si alimenta piuttosto alla filosofia di s. Tommaso che alla rivelazione cristiana in quanto tale. Sono cioè due filosofie che vengono messe in opposizione. Nella Rerum novarum (1891) il comunismo viene condannato come contrario a ogni diritto di proprietà, compreso quello sui beni di consumo e, nella forma più propriamente marxista, come contrario al diritto di proprietà dei mezzi di produzione (Rerum novarum, 4), oppure anche nella sua forma più blanda del comunismo agrario che, pur riconoscendo il diritto alla proprietà dei mezzi di produzione, lo esclude per quanto riguarda il possesso della terra in quanto tale. Sugli stessi toni si manterranno i pochi interventi di Benedetto XV (Pio X non si pronuncia mai sull’argomento).
Gli accenti cambiano con Pio XI. Le persecuzioni religiose in Russia, Cina e Messico mettono al centro la preoccupazione non solo per la natura socialmente eversiva del comunismo, ma per l’esistenza della religione stessa nelle società in cui esso si afferma. Per cui non solo nella Quadragesimo anno (1931) Pio XI scrive che il comunismo, «quanto poi sia nemico dichiarato della santa Chiesa, e di Dio stesso, è cosa purtroppo dimostrata dall’esperienza e a tutti notissima» (n. 12), ma soprattutto nella Divini Redemptoris (1937) denuncia come il ‘comunismo’ di oggi, in modo più accentuato di altri simili movimenti del passato, nasconda in sé un’idea di falsa redenzione.
«Uno pseudo-ideale di giustizia, di uguaglianza e di fraternità nel lavoro, pervade tutta la sua dottrina, e tutta la sua attività d’un certo falso misticismo, che alle folle adescate da fallaci promesse comunica uno slancio e un entusiasmo contagioso, specialmente in un tempo come il nostro, in cui da una distribuzione difettosa delle cose di questo mondo risulta una miseria non consueta». (n. 8)
Più globalmente nella stessa enciclica il comunismo viene condannato quale
«sistema, pieno di errori e sofismi, contrastante sia con la ragione sia con la rivelazione divina; sovvertitore dell’ordine sociale, perché equivale alla distruzione delle sue basi fondamentali, misconoscitore della vera origine della natura e del fine dello Stato, negatore dei diritti della personalità umana, della sua dignità e libertà». (n. 14)
Credo che ricordare questa evoluzione sia necessario per comprendere come il decreto del 1949 possa qualificare la dottrina comunista come «apostasia della fede» e non come semplice dottrina sovversiva. Ma si faccia attenzione: tutto ciò vale per la dottrina, ma non ancora per i vari partiti. Che potesse essere condannata come apostasia della fede una dottrina dichiaratamente materialista e atea, al fondo non costituisce un problema. La novità giuridica e il senso storico del decreto non consistono in questo, ma nella condanna di partiti, associazioni, singoli, che, non professando la dottrina condannata, perseguono tuttavia fini di trasformazione delle condizioni sociali esistenti.
Il partito comunista in Italia, nel momento di pubblicazione del decreto, non si proponeva infatti fini antireligiosi in quanto tali e non richiedeva un’adesione personale alla dottrina del materialismo dialettico. Nel 1946, Togliatti, sulla base delle difficoltà incontrate dai cattolici che avevano instaurato un’unità di azione con il Partito comunista italiano, aveva fatto modificare l’articolo 2 dello statuto e laddove prima si pretendeva l’adesione all’ideologia marxista-leninista aveva fatto inserire che potevano iscriversi semplicemente tutti i cittadini «che accettino il programma politico del partito» («indipendentemente dalla razza, dalla fede religiosa e dalle convinzioni filosofiche»). Il problema si pone quindi in maniera del tutto diversa nel caso dell’adesione a una dottrina e in quello dell’adesione al partito, del quale, come concede espressamente il Dubium del 1959, gli aderenti possono anche rifiutare la dottrina a esso ultimamente sottesa. Il Dubium, in altri termini, prendeva esplicitamente atto che diversa è l’adesione a un partito e diversa l’adesione a una dottrina. Sembrerà strano, ma introducendo l’inciso, si anticipava la distinzione della Pacem in terrissulla quale ritorneremo.
A questi sostenitori della politica del partito, sia mediante l’iscrizione formale, sia mediante il fiancheggiamento pratico nei vari modi della propaganda – ma non si parla ancora formalmente del voto sebbene alcuni manifestini diocesani spieghino proprio così il ‘sostenere’ generico del decreto (vedi quello di Piacenza), e sebbene poi il Dubium del 1959 confermi questa interpretazione –, si rivolge più propriamente il documento del Sant’Uffizio: non quindi a coloro che professano il comunismo materialista e anticristiano, ma a quanti aderiscono in varia maniera alla politica dei partiti comunisti. In Italia si trattava di enormi masse di cattolici, soprattutto della classe operaia e contadina. A costoro veniva dichiarato come «peccaminoso» il loro atteggiamento.
Questa precisazione rimandava all’ambito della prassi penitenziale della Chiesa. Il problema veniva cioè collocato all’interno dell’orizzonte della tradizionale praxis confessarii e non già in quello della confessione della fede. Per ciò stesso coloro che aderivano alla politica del Partito comunista non incorrevano nemmeno nella scomunica simpliciter reservata alla Sede apostolica prevista dal can. 2335 per gli aderenti alla massoneria o ad altre associazioni sovversive della Chiesa o del legittimo potere civile.
Il problema diventava quindi eminentemente pastorale, perché riversava sui parroci e sui confessori in genere la gestione degli enormi effetti del decreto stesso sulla pratica cristiana. Ma prima di approfondire questo aspetto ritengo sia necessario far presente il contesto storico dentro cui il decreto si poneva.
- IL CONTESTO STORICO
Come ho detto, non sappiamo nulla delle motivazioni precise per cui il decreto fu emanato. Il fatto colse di sorpresa parecchi uomini di Chiesa che espressero anche dei dubbi sulla sua opportunità.
«Mons. Tardini, responsabile delle relazioni internazionali della S. Sede, non era contrario alla decisione in sé, ma criticava una simile pubblicazione senza alcuna preparazione psicologica dell’opinione pubblica, recriminando contro i metodi di lavoro del S. Uffizio. Del resto non si comprendeva, negli ambienti diplomatici e politici, la necessità di una così rapida decisione».
Inoltre, dopo la sconfitta elettorale dei comunisti nel 1948, una volta passata la grande paura, perché questo irrigidimento nella colpevolizzazione delle masse cattoliche orientate, per la difesa legittima dei propri interessi, a sostenere la politica del Partito comunista in Italia?
In assenza di conoscenze certe sulle motivazioni effettive e sugli effettivi attori, non ci si può affidare che a ipotesi che i vari commentatori non hanno omesso di fare. La forza del Partito comunista in Italia era particolarmente vistosa e, con l’eccezione del parallelo francese, unica in tutto l’Occidente. E giacché la situazione italiana condizionava l’atteggiamento del Magistero in maniera particolare, il pericolo che ne derivava per gli interessi della Chiesa cattolica avrebbe dettato la necessità della condanna. Pericolo tanto più paventato in quanto in quegli anni la situazione della Chiesa cattolica nei paesi europei che erano caduti sotto l’influenza sovietica era a dir poco precipitata nel baratro. La Guerra fredda sarebbe stato cioè lo sfondo in cui collocare il gesto vaticano, sempre più simpateticamente orientato verso il blocco occidentale (vedi il conio «chiesa del silenzio»). Si aggiunga ancora che l’esperienza dei preti operai in Francia poneva la collaborazione con i partiti di sinistra come nodo della presenza non solo dei cristiani comuni, ma degli stessi preti.
Tutto ciò è plausibile. Non per proporre una lettura alternativa a queste ipotesi ritengo però sia utile, come precedente prossimo del decreto, ricordare alcuni particolari della vicenda del Movimento dei cattolici comunisti. Si tratta di una formazione politica, un ‘movimento’, sorto a Roma nel 1944, sotto la spinta di un gruppo di cattolici animati soprattutto da Franco Rodano che – mi si conceda la grossolanità della sintesi – aderiscono alla politica del Partito comunista con un netto rifiuto dei suoi presupposti dottrinali (il materialismo dialettico), ma con una nettissima condivisione della sua azione politica. Vi aderiscono dapprima in un legame organico, ma come soggetti distinti. L’atteggiamento del Vaticano nei loro confronti soffre di una certa ambiguità. Per legami anche familiari (i loro padri, per così dire, facevano parte di quella borghesia cattolica, in gran parte popolare e antifascista, che ha entrature dirette con i personaggi di curia) erano pregiudizialmente ben visti. Inoltre, nella politica vaticana esisteva ancora una certa indecisione su uno o più partiti cattolici. Ed erano proprio i ‘conservatori’, come Ottaviani, Tardini e un personaggio come don De Luca, a paventare il partito unico dei cattolici che avrebbe imbrigliato la libertà della Santa Sede. Restava però, come macigno, il fatto dell’adesione alla politica del Partito comunista italiano. Si spiegano così sia la reprimenda di Pio XII (23 luglio 1944) a questi «ignari o dimentichi dei più aperti insegnamenti della chiesa», sia i vari attacchi de «L’Osservatore romano» che culminano con un articolo dello stesso 23 luglio 1944 firmato dal padre Cordovani e intitolato Cattolici comunisti. Per superare gli ostacoli provenienti dalla gerarchia, il Movimento dei cattolici comunisti decide di trasformarsi in Partito della sinistra cristiana unificandosi anche con gran parte del disciolto Partito cristiano sociale. L’ostilità del Vaticano non cessa. Il 2 gennaio 1945, in una nota «L’Osservatore romano» precisa che gli insegnamenti della sinistra cristiana non sono conformi agli insegnamenti della Chiesa. La nota suscita una vivace polemica, nella quale interviene lo stesso Togliatti che vedeva nel Psc la possibilità della creazione di un movimento di sinistra all’interno del mondo cattolico, organico alla politica del Pci, che rendesse più agevole l’unità delle masse popolari. Nonostante la nota i contatti con il Vaticano tuttavia continuano. Attraverso Ottaviani e lo stesso Cordovani si può comprendere come la maggior preoccupazione del Vaticano non riguardasse più i principi, bensì la collaborazione con le forze di sinistra e soprattutto con il Pci. I principali responsabili, visto anche il poco spazio politico resosi evidente con la stessa caduta del governo Parri e la formazione del gabinetto De Gasperi (Dc, Pci, Psi), ma soprattutto per evitare tutti gli equivoci legati alla qualificazione cristiana del partito, convincono la maggioranza del partito riunito in congresso straordinario dal 7 al 10 dicembre 1945 all’autoscioglimento, e il 13 dicembre 1945 in edizione straordinaria «Voce operaia»,organo del partito, ne dava notizia con la pubblicazione del lungo intervento di Rodano. Parecchi tra i principali esponenti si iscriveranno poi a titolo individuale al Pci (Rodano, Balbo, etc.).
Nessuna formale condanna per le persone che compirono questa scelta intervenne immediatamente. Questo intervento si ebbe invece per traverso nei confronti del solo Franco Rodano, che nel numero di settembre del 1947 di «Rinascita» aveva pubblicato un articolo sulle condizioni economiche del clero in Italia per chiedere sostanzialmente una maggiore perequazione dei beni. Intervenne stranamente un decreto della Sacra congregazione del concilio che ravvisava nell’articolo gli estremi del can. 2344 (ingiuria e odio nei confronti dell’autorità ecclesiastica) e quindi ingiungeva di fare riparazione. Avendo Rodano rifiutato di fare ritrattazione e avendo pubblicato la seconda parte dell’articolo, fu interdetto a norma del can. 2275 (assistenza puramente passiva alle celebrazioni liturgiche, divieto di ricevere i sacramenti, divieto di sepoltura ecclesiastica). Evidente la pretestuosità della condanna che, al tempo stesso, manifestava l’incertezza della condotta da seguire verso il più illustre di coloro che aderivano al partito senza condividerne l’ideologia materialista e anticristiana, anzi noto per la sua ultraortodossa fede cattolica.
Ritengo che questo antecedente sia illuminante almeno su un punto: la paura ecclesiastica di fronte alla politica della sinistra come tale e la negazione velleitaria che questa politica fosse in qualche modo condivisa dai cattolici imposero ad un certo punto, non più pretestuosi interventi, ma qualcosa di più massiccio e motivato.
- LE RIPERCUSSIONI
Il decreto mise in agitazione le cancellerie, che furono sorprese e fecero fatica a comprendere la pretesa natura ‘religiosa’ dell’atto. In Italia la polemica che si accese con il fronte laico e comunista fu violenta. La reazione dei paesi comunisti fu invece politica, tanto è vero che alla fine del 1949 il governo polacco approvò una legge per garantire la libertà di coscienza contro il decreto. Ma qui mi vorrei limitare alle ripercussioni all’interno della Chiesa cattolica in Italia. Mi pare che tre cose vadano notate.
Il Vaticano poté senz’altro registrare come un successo la lettera, pubblicata ne «L’Osservatore romano», di alcuni prestigiosi intellettuali che disdissero la loro iscrizione al Partito comunista. Il principale firmatario fu Balbo. Ma la vicenda presenta dei dati oscuri. Le dimissioni di Balbo dal partito erano avvenute con lettera del 30 marzo 1951 alla cellula della casa editrice Einaudi, composta da Scassellati, Calvino, Bollati, Boringhieri, Filogamo, con la precisa richiesta di non dare ‘pubblicità’ alla cosa onde «evitare vociferazioni inconsulte e fraintendimenti». Il capo cellula Scassellati rispose in data 20 aprile 1951:
«Considerato che la tua decisione è motivata da ragioni che tu affermi d’origine specificamente filosofica e preso atto della tua dichiarazione di non voler aderire esplicitamente o implicitamente a nessun altro partito delle attuali forze storico politiche in gioco, come pure dell’espressione della tua riconoscenza verso il Partito e i suoi dirigenti, la cellula ha deciso di accogliere le tue dimissioni».
In netta contraddizione con il proposito di non dare pubblicità alla cosa, un anno dopo, il 2 aprile 1952, «L’osservatore romano» pubblicava una ‘dichiarazione’ di Felice Balbo, Sandro Fe’ d’Ostiani, Mario Motta, Ubaldo Scassellati, Giorgio Sebregondi, in cui affermavano di aver abbandonato fin dai primi mesi del 1951 il Pci «essendosi loro chiaramente manifestata l’impossibilità per un cattolico di appartenere a un partito comunista e di appoggiarlo, conformemente a quanto è affermato dalla Chiesa». Una stesura manoscritta di questa dichiarazione, presente nel fondo Balbo della Fondazione per le scienze religiose di Bologna, presenta qualche variante, la più importante delle quali è il termine «incompatibilità» invece di «impossibilità». I ‘mediatori’ del passo compiuto dai firmatari della dichiarazione, come risulta dal carteggio scambiato tra Balbo e lo stesso Gedda, furono in primo luogo Luigi Gedda che l’accompagnò con un proprio commento dal titolo Significato di un ritorno, ma in qualche modo anche il parroco della parrocchia romana di S. Maria in Domnica, don Mario Sora, e forse Gianni Baget Bozzo (il cui nome appare in una lettera indirizzata da Scassellati a Gedda). Nel commento di Gedda ci fu qualcosa che non fu di gradimento a Balbo, il quale, nel contesto preciso delle imminenti elezioni amministrative, temeva altresì che la dichiarazione fosse strumentalizzata a fini politici. Egli quindi concordò con Gedda una ‘precisazione’ pubblicata sulla prima pagina de «L’Osservatore romano» del 5 aprile 1952, in cui i firmatari della dichiarazione affermavano che
«1) La loro dichiarazione ha uno stretto carattere religioso di professione di fede e di obbedienza alla Chiesa, come testimoniano in modo inequivoco e il testo che si richiama esplicitamente alla formula del noto decreto del Sant’Offizio, e l’organo di stampa che l’ha pubblicato. Tale dichiarazione è stata resa pubblica perché a suo tempo i firmatari avevano pubblicamente sostenuto di fronte a cattolici opinioni condannate. 2) Tutte le lettere di dimissioni dal P.C.I. dettero come motivazioni delle stesse il dissenso ideologico dai principi marxisti e la raggiunta convinzione della rigorosa derivazione della linea politica del P.C.I. dalla sua ideologia, sì che ogni dissenso su particolari di tale linea politica veniva implicitamente riassorbito dal dissenso teorico di principio. La dichiarazione esprime sul piano religioso le conseguenze di tale giudizio teorico ed è ad esso rigorosamente omogenea. Ciò non è per nulla contrastante con il riconoscimento delle esperienze e dei contatti culturali e umani di cui l’appartenenza al P.C.I. è stata occasione. 3) Resta pertanto confermato che, con la dichiarazione, non vi è stato se non il coerente manifestarsi di una posizione che non consente interpretazioni politiche o tanto meno contingentemente elettorali, e va quindi giudicata soltanto sul terreno ad essa proprio, e cioè religioso».
Varie cose restano inspiegabili, in primo luogo la pubblicità data all’abbandono del Pci, dapprima recisamente esclusa. Sul piano canonico essa non era assolutamente necessaria. Fu questo quindi un prezzo che Balbo dovette pagare. E quale fu la contropartita? Il riconoscimento e il sostegno da parte di Gedda e di ciò che allora egli rappresentava per le iniziative successive di Balbo? Siamo nel campo delle pure ipotesi. Possiamo solo dire che a Rodano il fatto causò una vera crisi personale gravissima, non sul piano delle proprie convinzioni, ma sul piano dell’amicizia e del legame strettissimo che lo aveva unito a Balbo. La seconda cosa da notare, sul piano delle ripercussioni interne alla Chiesa, riguarda l’opera accurata di filtraggio operata da una minoranza di vescovi. Se il decreto fu infatti generalmente – almeno in via ufficiale – accolto positivamente dai vescovi e dai parroci, non mancarono atteggiamenti segnati da una differenziazione prudente e critica. Già il testo stesso offriva alcuni appigli: cosa voleva dire l’inciso «consapevolmente e liberamente» che qualificava il sostegno al Partito comunista? Qualsiasi confessore esperto sa che in questo modo è affidata a lui la valutazione dell’effettiva consapevolezza. Ma per ciò stesso l’esecuzione del decreto veniva affidata in concreto alla prudenza dei parroci. Personaggi come Della Costa a Firenze e Lercaro a Ravenna limitarono ad esempio in vario modo la portata della condanna. Lercaro, che nel 1949 era ancora arcivescovo di Ravenna, dove rimase dal 1947 al 1952, nel 1961 ricostruì così il proprio atteggiamento:
«In un paese come il nostro in cui quasi sette milioni di elettori votano abitualmente comunista, questa prescrizione del decreto del Sant’Uffizio avrebbe creato gravi imbarazzi a tanti sacerdoti, specialmente nella nostra regione e in quella della Toscana e dell’Umbria, se nel testo non fossero stati inseriti due avverbi “consapevolmente e liberamente”. Sì, si debbono rifiutare i sacramenti, ma solo a quelli che consapevolmente e liberamente accettano e favoriscono la diffusione del comunismo. Ma quanti sono quelli che consapevolmente e liberamente fanno questo? Dalle indagini compiute in questi anni dal nostro centro diocesano nella nostra archidiocesi, in varie parrocchie risulta che dovunque, in città, in campagna, collina e montagna, la massa che vota comunista non lo fa consapevolmente e liberamente, ossia non lo fa per avversione e odio contro la chiesa e per cooperare alla sua distruzione, ma lo fa per timore o rispetto umano o per la persuasione che il Partito comunista è il partito dei poveri, il partito che difende più decisamente di qualunque altro i diritti e gli interessi dei lavoratori e della povera gente. Politicamente, forse, questa distinzione non dice molto… pastoralmente tuttavia è una distinzione importantissima perché permette ai nostri parroci di mantenere i contatti con questa povera gente, intossicata, suggestionata dal comunismo, nella speranza di poterla recuperare e salvare».
Della Costa, in contrasto con le disposizioni dell’episcopato toscano, dispose che prima di non ammettere alla prima comunione o alla cresima i bambini che frequentavano le associazioni giovanili comuniste, dovessero consultare il vescovo.
Significativo ancora un particolare tipicamente ‘roncalliano’. Riferisce monsignor Capovilla che, in occasione di una visita dell’allora patriarca a Sotto il Monte in cui tutti, a detta del parroco, si erano accostati alla comunione, lo stesso Capovilla, visto che alle parole del parroco, Roncalli aveva mostrato uno sguardo di tenerezza, la sera quando rimasero soli si azzardò a osservare allo stesso patriarca:
«“Eminenza, un buon numero di questi parrocchiani ha votato in contrasto con le indicazioni dei vescovi. Le disposizioni lombardo-venete in proposito sono severe.” Il Cardinale mi guarda sottecchi, lascia trascorrere alcuni secondi e mi chiede: “Non dovevano accostarsi alla comunione?” “Non dovevano”, risponde il segretario Capovilla. E il cardinale: “Figlio mio, le disposizioni ecclesiastiche in materia sono necessarie; ne ho condiviso l’opportunità quando furono emanate nel 1949. Ma attenzione, al confessionale si presenta una persona, non il partito né un’ideologia. Questa persona è affidata alla nostra catechesi, al nostro amore e alla nostra inventiva pastorale. Occorre procedere caso per caso, con estrema cautela. Se le imponete qualcosa in modo drastico, non vi comprenderà, o comprenderà a rovescio; se la respingete, se ne andrà e non tornerà più. Il contadino e l’operaio (l’indotto davanti al cosiddetto dotto) è un po’ diffidente. Allontanarlo equivale a lasciarlo vagare da solo nei deserti dell’aridità».
Come terza cosa sul piano delle ripercussioni va detto tuttavia che, anche se è difficile una quantificazione esatta, in molti casi il decreto ebbe conseguenze disastrose. Questo va detto anzitutto sul piano pastorale. In qualche modo ne furono consapevoli gli stessi estensori del decreto. Infatti una dichiarazione del Sant’Uffizio dell’11 agosto 1949 chiariva che l’esclusione dei sacramenti non riguardava il matrimonio, con la stupefacente motivazione che ministri del matrimonio sono i nubendi e non il sacerdote. La pretestuosità della motivazione tradiva un disagio profondo e gettava uno sguardo sulle conseguenze devastanti che sarebbero risultate dal decreto.
Una delle migliori ricerche che documentano dal vivo queste conseguenze, attraverso un’inchiesta sul campo (alcune parrocchie della Romagna), è quella di Liliano Faenza. Mi limito a citarne un lungo brano perché a mio avviso rende al vero quello che accadde e, da solo, rende inutile ogni altra considerazione.
«Poi era giunta la scomunica: “Nessuno di noi”, dicono gli attivisti, “ha mai messo insieme la scomunica con l’articolo 7 (della Costituzione italiana). Nessuno ha mai pensato a questo: Prima votiamo per loro e adesso loro ci danno addosso” […].
Il partito rimaneva, comunque, agli occhi dei contadini, l’unica trincea dalla quale si potesse resistere, nonostante le sconfitte materiali e le condanne spirituali. A San Lorenzo a Monte, come altrove intorno, le posizioni sono definitive, assolute: o con i comunisti, cioè con chi lavora, o contro i comunisti, cioè con il prete e con i padroni. Se erano scardinate le forze d’urto reali, rimanevano sempre quelle legali, le schede, e con quelle la speranza di poter resistere aspettando tempi migliori. Il partito era l’impalcatura che dava a quelle schede un significato e a quella speranza un contenuto. La scomunica che colpiva gli attivisti e non la base fu accolta, dopo tutto, con uno spirito di beffa scanzonata, secondo lo stile del vecchio parroco, che ‘la prendeva facile’.
“Quando hanno dato la scomunica”, dicono i contadini, “ci siamo messi a ridere e anche le donne non se la sono presa tanto, perché qui le donne votano come noi”. Anche quelle che erano attaccate alla Chiesa dicevano che era una buffonata, che così non stava bene. Si diceva: “Cosa vuoi che sia? Allora, in Italia, siamo tutti scomunicati. I signori si sposano e poi divorziano e vanno con due o tre donne. Le sue mogli vanno anche loro con chi gli pare. Allora in paradiso possono chiudere le porte, perché non ci va più nessuno!” Però dopo un po’, quando si andava dal prete, lui a quelli che sapeva che si davano più da fare per il partito, gli cominciava a fare delle domande. Ai neutrali, invece, niente. E quelli che stavano attivi, quando sono andati a sposarsi, il prete, cioè, li ha messi davanti al Crocifisso, con una mano sul Vangelo, per giurare che non erano comunisti, oppuramente, che non volevano starci più e stracciavano la tessera. Allora loro piuttosto che giurare andavano via e si sposavano a Serravalle di S. Marino, o se no, andavano a confessarsi da qualche prete più alla mano in città, o se no andavano a sposarsi in un altro posto e facevano la comunione senza confessarsi, perché sposarsi senza la comunione non fa un bel vedere».
- LA PACEM IN TERRIS
L’11 aprile 1963 Giovanni XXIII, che nel 1959 aveva approvato il Dubium del Sant’Uffizio, firmava l’enciclica Pacem in terris. Ai nn. 84-85 vi si affermava tra l’altro:
«Va altresì tenuto presente che non si possono neppure identificare false dottrine filosofiche sulla natura, l’origine e il destino dell’universo e dell’uomo, con movimenti storici a finalità economiche, sociali, culturali e politiche, anche se questi movimenti sono stati originati da quelle dottrine e da esse hanno tratto e traggono tuttora ispirazione. Giacché le dottrine, una volta elaborate e definite, rimangono sempre le stesse; mentre i movimenti suddetti, agendo sulle situazioni storiche incessantemente evolventisi, non possono non subirne gli influssi e quindi non possono non andare soggetti a mutamenti anche profondi. Inoltre chi può negare che in quei movimenti, nella misura in cui sono conformi ai dettami della retta ragione e si fanno interpreti delle giuste aspirazioni della persona umana, vi siano elementi positivi e meritevoli di approvazione? Pertanto, può verificarsi che un avvicinamento o un incontro di ordine pratico, ieri ritenuto non opportuno o non fecondo, oggi invece lo sia o lo possa divenire domani. Decidere se tale momento è arrivato, come pure stabilire i modi e i gradi dell’eventuale consonanza di attività al raggiungimento di scopi economici, sociali, culturali, politici, onesti e utili al vero bene della comunità, sono problemi che si possono risolvere soltanto con la virtù della prudenza, che è la guida delle virtù che regolano la vita morale, sia individuale che sociale. Perciò, da parte dei cattolici tale decisione spetta in primo luogo a coloro che vivono od operano nei settori specifici della convivenza, in cui quei problemi si pongono, sempre tuttavia in accordo con i principi del diritto naturale, con la dottrina sociale della Chiesa e con le direttive della autorità ecclesiastica».
Era un altro mondo: la distinzione tra dottrine filosofiche e movimenti storici qui fondava la legittimità di avvicinamenti e incontri tra i cristiani e quei movimenti originati da quelle dottrine, dalle quali i movimenti hanno tratto e traggono ancora adesso ispirazione. La decisione sull’incontro spetta in primo luogo ai soggetti che vivono ed operano nei settori specifici della convivenza, in accordo con i principi del diritto naturale e l’insegnamento della Chiesa.
E, prima ancora di quell’enciclica, l’11 ottobre del 1962, nell’allocuzione Gaudet Mater Ecclesia, lo stesso papa aveva annunciato ai vescovi radunati in concilio la fine dell’età delle condanne. Certo, non fu facile per i vescovi accettare l’avvento della misericordia. Soprattutto durante le discussioni che accompagnarono la redazione della costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et spes, fortissime furono le richieste di una condanna del comunismo. Alla fine le richieste furono respinte e il concilio si rifiutò di fare un passo nella loro direzione, e quando si introdusse la nota 24 del § 21 ci si limitò a richiamare le precedenti condanne del comunismo citando esclusivamente quattro encicliche di Pio XI, Pio XII, Giovanni XXIII e Paolo VI che condannano l’ateismo dell’ideologia marxista, senza citare il decreto del 1949. Il contesto in cui quelle condanne venivano citate non si riferiva infatti direttamente ai vari partiti comunisti, ma solo all’ateismo:
«La Chiesa, fedele ai suoi doveri verso Dio e verso gli uomini, non può fare a meno di riprovare, come ha fatto in passato (24), con tutta fermezza e con dolore, quelle dottrine e quelle azioni funeste che contrastano con la ragione e con l’esperienza comune degli uomini e che degradano l’uomo dalla sua innata grandezza. Si sforza tuttavia di scoprire le ragioni della negazione di Dio che si nascondono nella mente degli atei e, consapevole della gravità delle questioni suscitate dall’ateismo, mossa dal suo amore verso tutti gli uomini, ritiene che esse debbano meritare un esame più serio e più profondo».
Implicitamente il decreto del 1949 veniva così declassato a un episodio infelice della recente storia della Chiesa. Esso fa parte di una stagione ed è comprensibile solo all’interno di quella stagione storica. Una stagione che sta e cade tutta assieme. Importante resta saper valutare il succedersi delle stagioni. Giacché la logica sottesa a quella stagione potrebbe riproporsi ancora.
Facendo un balzo di qualche decennio non si possono non ricordare e condividere le recenti forti parole di condanna del Pontefice pronunciate in Calabria contro le locali associazioni a delinquere. Con l’occasione – per sottolineare evidentemente con ancora maggiore forza la posizione della Chiesa – il Pontefice ha tirato fuori un «ferro vecchio» della Chiesa Cattolica Romana – la scomunica– sul quale forse varrebbe la pena riflettere un po’, perché, anche se viene dal passato, nell’accezione in cui è stato adottato da Papa Francesco potrebbe avere un grande futuro davanti a sé.
La scomunica è un antichissimo istituto della chiesa cattolica, che si rifà al bando imperiale e ad analoghe istituzioni ebraiche e si fonda su vari passi del Vangelo, il più esplicito tra i molti è quello per il quale chi ha commesso una colpa deve essere sottoposto a un triplice tentativo di correzione, al termine del quale se persevera deve essere espulso dalla comunità (Mt, 18, 15-17). Col tempo essa divenne una vera e propria pena nell’ambito del diritto penale canonico, giustificata e solida all’interno di una società in cui non solo la sfera religiosa e quella civile si fondevano, ma in cui il potere più forte era evidentemente quello ecclesiastico. La scomunica comportava – ancora agli inizi dell’età moderna – tutta una serie di conseguenze non di poco conto, la perdita di quasi tutti i diritti civili, l’impossibilità di sottoscrivere qualsiasi contratto, lo scioglimento dal vincolo matrimoniale per il coniuge, il rischio di perdere tutti i propri beni oltre che l’esclusione fisica dalla comunità. In non pochi casi, almeno in quelli più gravi, essa determinava anche delle conseguenze penali civili (cioè comminate dall’autorità civile) che potevano arrivare fino alla tortura e alla pena di morte. Insomma la scomunica era la più grave pena a disposizione del Diritto Canonico, che però finì per usarla con eccessiva frequenza, indebolendone col tempo pesantemente gli effetti.
Questo per dire brevemente che la scomunica ha una grande storia all’interno della Chiesa Cattolica e certamente se ha perso il suo significato come pena, ha mantenuto – almeno sul piano dottrinale – il suo significato morale di esclusione degli indegni alla comunità cristiana. E questo è il senso profondo ripreso dal Pontefice Francesco in questi giorni. Il punto ora è un altro, cioè che a questo utilizzo della scomunica per sanzionare i mafiosi dovrebbe corrispondere – in senso stretto – un’applicazione coraggiosa di tale principio di esclusione anche ad altre forme di indegnità, non solo morale, che creano grave scandalo e spesso danno l’impressione di essere considerate dalla chiesa cattolica tra quelle colpe per le quali è sufficiente il perdono tradizionale. In realtà – quando è stato il caso – alcuni sacerdoti e certi vescovi hanno dimostrato di continuare a praticare una sorta di scomunica ridotta, ad esempio rifiutando di ammettere ai sacramenti persone che fossero in palese situazione «problematica», come nel caso dei separati-conviventi di chiara fama. Così nulla potrebbe vietare che la chiesa cattolica, per dare maggior forza al senso morale che costituisce la base dell’appartenenza ad essa, decidesse, che so, di scomunicare con la stessa forza con cui sono stati scomunicati i mafiosi calabresi, anche i politici che rubano o che prendono le tangenti (sopratutto se recidivi), oppure tutti quei cristiani rumorosamente impegnati nella vita pubblica che, altrettanto clamorosamente, contravvengono con la loro vita ai principi fondamentali della chiesa cattolica (i 10 comandamenti, ad esempio). Il principio è lo stesso e non vi è ragione di credere che il crimine mafioso sia il più grave possibile, o quello di maggior impatto sociale negativo. Insomma, ascoltando le parole di papa Francesco contro la ‘ndrangheta, ci è venuto il dubbio, e la speranza, che la Chiesa Cattolica, molto più di quanto sia stato fatto finora, voglia tornare a svolgere – anche con gli strumenti del passato – un ruolo più incisivo di maestra dei comportamenti della morale, anche a rischio di perdere clienti e sottoscrittori, ma aumentando la propria autorevolezza (e forse perfino la propria fedeltà ai principi del Vangelo….).
CITTÀ DEL VATICANO. “La Consulta non si ridurrà a pie esortazioni, perché occorrono gesti concreti”. E, in particolare, lavorerà per “definire il ruolo della Chiesa e del laicato contro la corruzione, le mafie e il crimine organizzato”. Inoltre, per “approfondire lo studio sulle possibilità di estendere a livello globale – attraverso le conferenze episcopali e le chiese locali – la scomunica ai mafiosi e alle organizzazioni criminali affini. Approfondire, inoltre, la questione relativa alla scomunica della corruzione, attraverso il confronto con le conferenze episcopali e le chiese locali”.
Recita così il documento finale del “Dibattito internazionale sulla corruzione” e obiettivi della “Consulta internazionale sulla giustizia, la corruzione e il crimine organizzato, le mafie” riunita in Vaticano lo scorso 15 giugno per volere del Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale in collaborazione con la Pontificia Accademia delle Scienze Sociali.
Esponenti della Chiesa, della magistratura, di associazioni e vittime di crimini avevano messo in piedi una task force per una battaglia culturale contro la corruzione, una piaga che è prima di tutto un modo di essere e di pensare, linguaggio di mafie e organizzazioni criminali. Lo scopo della Consulta era ed è quello di creare sinergie per contrastare questo fenomeno.
Il documento finale è il frutto di un lavoro non facile, con la conferma ineludibile della necessità di lavorare anche a livello della dottrina giuridica della Chiesa sulla questione relativa alla scomunica per corruzione e associazione mafiosa. Il compito è affidato alle singole conferenze episcopali che sul territorio dovranno trovare le modalità giuste d’azione, fino ad arrivare a quella scomunica già auspicata dal Papa nella spianata di Sibari a Cassano all’Jonio, nel 2014: “I mafiosi sono scomunicati”, aveva detto.
La scomunica è la pena più grave nella Chiesa. Comporta l’allontanamento dalla comunità dei fedeli e la conseguente esclusione dai sacramenti. È riservata a chi viola i segreti del conclave; oppure chi profana le ostie o attenta alla vita del Papa. È sempre possibile chiedere perdono, confessarsi, ma ci sono diversi gradi: se, infatti, generalmente una scomunica può essere tolta dal prete durante la confessione, alcune sono riservate al vescovo o, persino, alla Santa Sede, cioè alla Penitenzieria apostolica, il competente ufficio della Curia romana.
La corruzione è un tema che ricorre spesso nelle parole di Francesco, che ha più volte avvisato quanto sia pericolosa e come uno che corrompe sia molto più che un peccatore: “Il peccatore, se si pente, torna indietro; il corrotto, difficilmente”, ha spiegato qualche mese fa in una delle omelie a Casa Santa Marta. E nella prefazione al libro “Corrosione” (Rizzoli), scritto dal cardinale Peter K. A. Turkson, prefetto del Dicastero dello Sviluppo, con Vittorio V. Alberti, il Pontefice l’ha definita un “cancro” da estirpare.
Fior di politici nostrani che hanno ottenuto l’impunità in terra potrebbero presto fare i conti con la giustizia divina. Il Vaticano sta infatti pensando di scomunicare corrotti e mafiosi. La notizia irrompe dalla relazione conclusiva di un incontro internazionale a tema, tenutosi nei giorni scorsi in Vaticano, l”ultimo di cinque promossi in un percorso avviato dal dicastero dello Sviluppo umano integrale per elaborare un documento di proposte relative alle strategie di lotta. “Il gruppo – si legge nella relazione – sta provvedendo all’elaborazione di un testo condiviso che guiderà i lavori successivi e le future iniziative”. Tra le quali, appunto, la questione della “scomunica per corruzione e associazione mafiosa”. L’ufficio per lo sviluppo ricorda che alla riunione internazionale, che si è tenuta lo scorso 15 giugno ed è stata organizzata in collaborazione con la Pontificia Accademia per le Scienze Sociali, hanno partecipato circa 50 tra magistrati anti-mafia e anti-corruzione, vescovi, personalità di istituzioni vaticane, degli Stati e delle Nazioni Unite, capi di movimenti, vittime, giornalisti, studiosi, intellettuali, e alcuni ambasciatori.
All’apertura dei lavori proprio Papa Bergoglio aveva indicato la strada, nel solco di un tema che è diventato sempre più centrale nel suo Pontificato. Giusto tre anni fa nella Messa sulla Piana di Sibari, in Calabria, era arrivato l’anatema contro la ‘ndrangheta davanti a 250mila persone. Il 22 marzo 2015 a Napoli aveva lanciato l’anatema contro lavoro nero, camorra e tangenti (“spuzzano”). E nei successivi due anni ne sono seguiti altri. Nella prefazione al libro del cardinale Peter Turkson “Corrosione”, edito da Rizzoli, Bergoglio in persona ha scritto che la Chiesa è chiamata a svolgere un ruolo di prima linea nella ricostruzione “di un nuovo umanesimo forte e costruttivo, un rinascimento, una ri-creazione che possiamo realizzare con audacia profetica” mentre la Chiesa non deve aver paura di “purificare se stessa”.
“Abbiamo pensato questo incontro – ha spiegato il cardinale Turkoson – per far fronte ad un fenomeno che conduce a calpestare la dignità della persona. Noi vogliamo affermare che non si può mai calpestare, negare, ostacolare la dignità delle persone. Quindi spetta a noi, con questo Dicastero, saper proteggere e promuovere il rispetto per la dignità della persona. E per questo cerchiamo di attirare l’attenzione su questo argomento”.
L’arcivescovo Silvano Tomasi ha poi spiegato che l’obiettivo è: “sensibilizzare l’opinione pubblica, identificare passi concreti che possano aiutare ad arrivare a delle politiche e delle leggi eventualmente che prevengano la corruzione, perché la corruzione è come un tarlo che si infiltra nei processi di sviluppo per i Paesi poveri o nei Paesi ricchi, che rovina le relazioni tra istituzioni e tra persone. Quindi lo sforzo che stiamo facendo è quello di creare una mentalità, una cultura della giustizia che combatta la corruzione per provvedere al bene comune”.
Lucia Cocozza