La funzione presidenziale di garanzia costituzionale è evidentemente in crisi perché sta andando in contro a una paradossale eterogenesi di fini. Tutti sappiamo che cosa si intende per funzione presidenziale di garanzia costituzionale. Il canone interpretativo dominante della dottrina costituzionalistica italiana è quella di distinguere tra organi di direzione politica e organi di garanzia. Ora sarebbe interessante ricostruire l’origine di queste impostazioni: alcuni ritengono che si debba riallacciare alla famosa distinzione tra “gubernaculum” e “iurisdictio”; altri dicono che sia il modo in cui il costituzionalismo europeo continentale ha realizzato i valori del garantismo liberale. In ogni caso, questa è una distinzione che i costituzionalisti italiani hanno utilizzato per raggiungere due obiettivi: il primo obiettivo è quello di estromettere il Presidente della Repubblica dal circuito di direzione politica, perché se è un organo di garanzia, non può essere un organo di indirizzo; il secondo obiettivo, che è più dogmatico e dottrinale, accreditare la concezione polifunzionale della controfirma. La distinzione tra organi di indirizzo e organi di garanzia è stata utilizzata dalla dottrina costituzionalistica italiana per dare significato soprattutto all’art. 89 Cost. e quindi alla controfirma ministeriale.
Ora, sviscerare questa storia dottrinale in poche battute non è semplice, ma dico solo questo: per la maggior parte dei costituzionalisti italiani che si sono occupati del tema poco dopo l’entrata in vigore della Costituzione repubblicana hanno percepito che l’art. 89 Cost. era un problema. Ed era un problema perché conteneva e contiene ancora oggi quella famosa formuletta secondo cui “nessun atto del Presidente della Repubblica è valido se non è controfirmato dai ministri proponenti che se ne assumono la responsabilità”. Si sosteneva che l’art. 89 fosse una disposizione irrazionale e contraddittoria: Costantino Mortati affermava che l’articolo in esame fosse un retaggio della tradizione ed Enzo Cheli lo definì addirittura un “relitto storico”. Questa disposizione alla dottrina costituzionalistica italiana non piaceva perché era difficile far quadrare i conti: se tutti gli atti del Capo dello Stato presuppongono un Ministro proponente che se ne assume la responsabilità, allora le interpretazioni possibili erano due: la prima, che gli atti presidenziali fossero tutti sostanzialmente governativi, che muovono da una iniziativa governativa e che sono politicamente orientati dall’indirizzo del Governo; tuttavia, ben si capisce che accedendo a questa lettura non avrebbe neanche senso qualificarli come atti presidenziali. Oppure, lettura alternativa, che il testo costituzionale suggeriva prima facie, era che gli atti presidenziali fossero atti “complessi”: sono atti del Capo dello Stato e quindi rientrano nella sua sfera di competenza, ma poiché per ciascun atto bisogna presumere che ci sia stato un Ministro proponente, ciò suggeriva come interpretazione la necessità che per ciascun atto presidenziale ci fosse il concorso di due volontà entrambe con valore costitutivo. Dunque, gli atti presidenziali sarebbero atti che vengono determinati dal concorso tra la volontà del Capo dello Stato e del Governo.
Questa lettura dell’atto complesso alla dottrina costituzionalistica repubblicana non poteva piacere perché l’obiettivo di fondo era appunto quello di estromettere il Capo dello Stato dal circuito di indirizzo politico: se gli atti presidenziali sono atti complessi – anche se è vero che per il loro compimento occorre sempre e comunque la controfirma governativa – il Presidente avrebbe conquistato potere di opporre un proprio rifiuto a qualche iniziativa governativa. E così la dottrina italiana ha preferito, in qualche modo, “relativizzare” l’interpretazione dell’art. 89 Cost. e sovrapporre a questo il grande canone basato sulla distinzione fra organi di garanzia e organi di indirizzo politico, in questo modo ha costruendo la concezione polifunzionale. A noi non sembra chiaro se la teoria dell’organo di garanzia sia nata prima o dopo della concezione polifunzionale, cioè non è chiaro chi sorregga che cosa, se sia la teoria garantistica a giustificare la teoria polifunzionale o viceversa. In ogni caso questa è la dottrina maggioritaria.
Una piccola parentesi. Il primo che ha parlato della funzione di garanzia del Presidente della Repubblica è stato Galeotti, ma la cosa curiosa è che lo stesso non elaborò mai una concezione polifunzionale degli atti del Capo dello Stato, ma proponeva sempre il solito modello: il Governo proponeva l’atto, lo determina politicamente, mentre il Presidente della Repubblica esercita una funzione di controllo. Qualche anno dopo Guarino e Barile elaborano una concezione polifunzionale e Galeotti non si adegua, ma “appiccica” la propria dottrina garantistica a questo mutato quadro dogmatico. E questa è la premessa.
Ora, il nostro ragionamento tende a dimostrare che questa concezione è in crisi perché ci troviamo di fronte ad una palese eterogenesi di fini; la dottrina garantistica, in realtà, non è riuscita ad estromettere il Capo dello Stato dal circuito di indirizzo politico, ma ha addirittura operato come un fattore potentissimo di legittimazione delle politiche presidenziali; praticamente, il Presidente della Repubblica non è stato estromesso dal recinto ove si assumono le decisioni politiche, ma gli è stato addirittura facilitato l’ingresso; anzi, per certi versi, è stato “spinto” con forza in questo recinto.
Altro dato interessante, tutti i Presidenti della Repubblica hanno sempre dichiarato di riconoscersi in questa dottrina; per un essere umano che abbia un ruolo istituzionalmente e politicamente importante, dovrebbe essere naturale riconoscersi in quella dottrina che maggiormente amplifica le sue possibilità di azione e i suoi margini operativi: se un soggetto ha la possibilità di esondare e di fare un uso estensivo dei poteri che gli sono attribuiti, lo fa. Ma allora perché il Capo dello Stato ha sempre dichiarato di riconoscersi nella dottrina garantistica? Proprio perché la dottrina garantistica offre questo indubbio vantaggio: non estromette il Capo dello Stato dalla direzione politica, ma legittima il suo inserimento in questo circuito; in realtà non lega le mani al Capo dello Stato, ma le libera. Del resto, se uno potesse rappresentare delle decisioni come se discendessero direttamente dai principi e dai valori costituzionali, tutta l’attività sarebbe coperta da una sorta di intangibile sacralità istituzionale che si oppone ai dissenzienti; anzi, chi dissente si accolla il rischio di essere percepito come un “nemico” della Costituzione.
Dunque, la questione teorica è: facciamo finta che la dottrina garantistica sia una dottrina accettabile e che sia una ricostruzione dogmatica coerente e aderente al dettato costituzionale; la domanda che bisognerebbe porsi consiste nel chiedersi se è possibile che un organo monocratico che non è organizzato in forma giurisdizionale possa svolgere una attività di controllo e di garanzia che consiste fondamentalmente nell’applicazione di norme giuridiche? Chi studia la giustizia costituzionale sa che tutti gli organi di giustizia costituzionale che sono stati introdotti a partire dal secondo dopoguerra, non sono assimilabili agli organi compiutamente giurisdizionali; soltanto ultimamente si sta affermando che la Corte Costituzionale è un giudice, perché da sempre questo è stato un problema. Ebbene, gli organi di giustizia costituzionale con il tempo hanno subito un processo di giurisdizionalizzazione che, per certi versi, è molto simile a quello che ha interessato il Tribunale di Cassazione post-rivoluzionario in Francia: dopo la rivoluzione fu introdotta la Cassazione che non era una articolazione del potere giudiziario, bensì una articolazione del potere legislativo che aveva come finalità quella di garantire le prerogative del legislatore, avendo il potere di cassare e di annullare le pronunce dei giudici che non fossero rispondenti al dettato legislativo. Con il tempo, il Tribunale di Cassazione è stato assorbito e metabolizzato dall’apparato giudiziario, e adesso non è altro che una articolazione della giurisdizione.
Lo stesso fenomeno ha interessato gli organi di giustizia costituzionale; ripeto, lo stesso è stato per la nostra Corte Costituzionale; si pensi al dibattito sulla possibilità di un processo costituzionale: per tanti anni c’è stato chi, come Gustavo Zagrebelsky ha sostenuto che l’attività della Corte deve essere organizzata secondo le forme e le categorie processuali che sono state elaborate dalla dottrina processualistica. Ma c’è stato anche chi, come Carlo Mezzanotte, ha sostenuto che la Corte Costituzionale non fosse giudice, bensì un organo che appartiene alla forma di governo e quindi ha bisogno di quella flessibilità operativa che serve per legittimarla e non può essere incanalata e imbrigliata nelle rigide forme processuali. Gli anni sono passati, e possiamo dire con certezza che “ha vinto” Zagrebelsky: la Corte Costituzionale è sicuramente un giudice, e lo stesso possiamo dire per tutti i giudici costituzionali. Questo processo di giursidizionalizzazione è sempre legato ad un’ attività di controllo, perché se un’ attività è qualificata come applicativa di norme giuridiche al fine di controllare l’attività di un altro organo, è inevitabile che assuma una forma giurisdizionale.
Perché questo processo di giurisdizionalizzazione non ha potuto riguardare il Capo dello Stato? È possibile ipotizzare una funzione di garanzia costituzionale svolta in forme che non sono giurisdizionali? Nella tradizione costituzionalistica europea c’è stato chi ha sostenuto che questo non fosse possibile; infatti il custode della Costituzione di cui parla Carl Schmitt non è il giudice, ma il Presidente del Reich; in questo caso per custodia della Costituzione non si intende quello che la dottrina costituzionalistica italiana intende per garanzia presidenziale della Costituzione; ma è la politica di garanzia ad orientare l’indirizzo politico nazionale di fronte al pericolo della dissoluzione pluralistica del sistema dei partiti. C’è stato Kelsen che ha affermato che è possibile una garanzia giurisdizionale della Costituzione, tralasciando un problema fondamentale: è possibile una garanzia giurisdizionale presidenziale della Costituzione che consista in una attività applicativa di norme? Enzo Cheli, nel 1961, ha provato a mettere a punto la distinzione tra atti di controllo e atti giuridici: ha affermato che nel nostro ordinamento alcuni atti costituzionali sono atti di controllo; non solo quelli che sono indicati dalla Costituzione, ma quelli che possono essere adottati soltanto per finalità positivamente indicate dal testo costituzionale. Quindi, rispetto agli atti di controllo, la Costituzione è un limite estrinseco ed intrinseco, negativo e positivo. Poi ci sono gli atti politici che sono anche essi limitati dalla Costituzione, ma possono essere adottati per fini che non sono indicati dal testo costituzionale, e sono quindi atti liberi nel fine. Il punto è questo: se un organo è titolare del potere di adottare non soltanto atti di controllo, ma anche atti politici, è difficile che il suo ruolo sia limitato alla mera funzione di controllo perché fra queste due tipologie di atti è inevitabile che si innescano dei processi simbiotici che si contaminano reciprocamente; infatti succede spesso che l’atto di controllo venga adottato anche per finalità che non siano espressamente indicate in Costituzione, e viceversa succede che gli atti propriamente politici beneficino della sacralità costituzionale che spetta agli atti di controllo e vengono rappresentati anche essi come atti di garanzia, mentre, in realtà, non lo sono. Certo, si potrebbe replicare affermando che il Capo dello Stato non ha la piena disponibilità degli atti politici perché può compiere soltanto atti di controllo. Ma proprio qui sta il punto, perché la dottrina costituzionalistica italiana questo non lo ha mai detto, se non Galeotti che affermò esplicitamente che il Capo dello Stato può svolgere soltanto una funzione di controllo applicativa delle norme giuridiche. La dottrina costituzionalistica maggioritaria – anche recentemente –, al contrario, pur muovendo da una concezione di base che è garantistica, sembra che ha taciuto sul fatto che esiste una parte dell’attività presidenziale che non è di garanzia costituzionale in senso stretto. L’aggettivo “politico” sta a significare che c’è qualcosa nell’attività presidenziale che non può essere rivolta alla mera applicazione di norme. Poi c’è Baldassarre che recentemente ha affermato che il Capo dello Stato compie atti che lo pongono al centro della vita politica; l’ambito di esercizio, i destinatari e gli effetti degli atti compiuti dal Capo dello Stato sono “naturalmente” politici.
Allora ben si capisce che anche nell’ambito della dottrina costituzionalistica italiana esiste questo problema: in cosa la garanzia presidenziale della Costituzione si distingue dalla garanzia giurisdizionale? E in cosa consisterebbe questa intrinseca politicità della funzione presidenziale di garanzia? Per risolvere questo dilemma, e si arriva a un punto scottante, è stata riesumata la teoria di Constant. Baldassarre scrive, in un saggio del 2012, che la teoria del potere neutro di Constant è l’unica teoria che pur muovendo da una concezione di base che vede nel Capo dello Stato un garante, ha cercato di equilibrare tale fondamento con gli effetti di grande rilevanza politica dei suoi atti; egli aggiunge che in questo modo, la nozione di potere neutro è in grado di spiegare l’apparente ossimoro insito nella definizione di garanzia politica. Questa teoria del potere neutro è stata poi ripresa nell’ultima edizione del manuale di diritto costituzionale di Martines, curata da Gaetano Silvestri, così definita: il Capo dello Stato non ha soltanto il compito di garantire la costituzionalità dei provvedimenti che vengono adottati dal Governo, ma anche poteri di iniziativa, di impulso e di persuasione che, in qualche modo, si sovrappongono all’ordine formale delle competenze presidenziali; questi poteri sono stati utilizzati per risolvere i conflitti tra il Governo e il Parlamento e possono essere utilizzati nelle fasi in cui c’è la formazione del Governo e in tutti i casi in cui non è possibile la formazione di coalizioni governative; e in virtù di questi poteri di influenza, moderazione e persuasione il Capo dello Stato viene collocato nel mezzo della politica nazionale presentandosi e agendo egli stesso alla maniera di un soggetto politico.
Dunque, la domanda è la seguente: ma davvero la dottrina di Constant è utile per spiegare il ruolo del Capo dello Stato in una Repubblica Parlamentare? Sembra che siano diversi equivoci, o meglio, che ce ne sia una che poi, progressivamente ne ha formati degli altri: Constant sostiene, nel 1818, che il potere esecutivo, legislativo e giudiziario sono tre settori che devono cooperare, ciascuno nella sua porzione di spazio; ma quando questi settori si incrociano e disordinatamente si scontrano e si ostacolano, occorre una forza che li rimetta al loro posto; e questa forza sarebbe il potere neutro. Questo ha suggerito alla dottrina costituzionalistica italiana che il potere neutro è del Presidente della Repubblica, supremo garante dell’ordinamento costituzionale. Ma è veramente così? Si ricordi che Constant scrive nel 1818: non era un pericoloso rivoluzionario,ma aveva un intento apologetico rispetto alla situazione costituzionale del suo Paese; ma nel 1818 in Europa non c’era la minima idea di cosa fosse un regime parlamentare; il primo a creare questo equivoco è stato proprio Schmitt, ereditato a cascata da tutti gli altri; Schmitt, nel 1938, scrive che Constant deve essere considerato un araldo del parlamentarismo e la dottrina del potere neutro è una tipica teoria costituzionale dello stato di diritto. Il dubbio sorge se uno riflette su come sia possibile che questo passaggio di Constant possa essere letto in chiave di garantismo liberale e in chiave di costituzionalismo garantista, perché esiste un sistema costituzionale nel quale i tre poteri e gli organi costituzionali – ciascuno dei quali è titolare di una propria competenza – è possibile non soltanto che possano cooperare, ma è possibile anche che si incrocino disordinatamente, si scontrino e si ostacolino a vicenda; in questi casi non c’è un potere neutro che interviene a garantire gli ambiti di competenza e impedisce le interferenze reciproche; anche nel sistema statunitense ove è utilizzato il checks and balances, dove l’obiettivo del costituzionalismo liberale deve creare le condizioni per cui i poteri interferiscano gli uni con gli altri per controbilanciarsi, non c’era. Allora perché Constant, con riferimento alla condizione costituzionale europea sente il bisogno di un potere neutro che impedisca tutto questo? Probabilmente il potere neutro di cui parla Constant non ha nulla a che vedere con le funzioni di garanzia.
Altro equivoco: il potere reale, quello del Capo dello Stato, è neutro, mentre il potere dei Ministri è un potere attivo; siccome il potere dei Ministri è un potere attivo, il potere del Capo dello Stato è un potere inattivo; attivo significa, “politicamente” attivo, mentre inattivo indica un potere che politicamente è “inattivo”. Però già Leopoldo Elia negli anni ’50 sulla continuità del funzionamento degli organi costituzionali ha prefigurato un altro dubbio: se Constant definisce il potere regio come un potere politicamente inattivo, perché mai li definisce poteri? Perche potere neutro, in realtà, non significa potere politicamente inattivo; il potere attivo è quello dei Ministri perché loro, nella sistematica di Constant e nel modello costituzionale puro del 1818 avevano come funzione quella di portare ad effetto e di tradurre in atto la volontà regia: era un potere esecutivo di una volontà ricevuta dal sovrano e ne rispondevano politicamente davanti al monarca; e Constant lo dice molto chiaramente: il Re destituisce i Ministri se non portano a compimento la volontà regia.
Ancora, il potere neutro di cui parla Constant aveva la possibilità di nominare e revocare i Ministri, esercitava le funzioni normative tranne quelle che erano condivise insieme alle Camere, poteva determinare la composizione della Camera bassa, poteva mutare la composizione della Camera alta e poteva anche riformare le sentenze; questo insieme veramente notevole delle funzioni che faceva del potere reale l’organo supremo dello Stato e che lo ponevano al di sopra di tutti gli altri poteri e che consentivano a questo organo di imprimere una direzione politica unitaria a tutte le attività statali poteva essere descritto come potere politicamente inattivo? E ancora, quando si parla della responsabilità dei Ministri, questa viene intesa in senso rigorosamente giuridica e mai politica; del resto, i primi esperimenti di parlamentarismo iniziano nel 1930, dopo che Constant muore. È curioso che la dottrina costituzionalistica non abbia colto che la nozione di potere neutro è identica alla nozione che prima Mortati e poi Crisafulli elaborano negli anni ’30 ed è la funzione di governo e di indirizzo politico. Quando Mortati scrive che la funzione di governo è il principio di unità di fronte al principio di divisione ed è un’attività che unifica tutte le attività statali, che rappresenta la determinazione dei fini cui sono rivolte tutte le articolazioni funzionali non sta sviluppando un discorso diverso da quello di Constant, il quale parla di potere neutro non perché sia apolitico, ma perché non è né legislativo, né esecutivo, né giudiziario pur potendo applicarsi a ciascuno di essi; ma questo Constant lo dice: l’azione del Re deve essere neutrale perché possa necessariamente applicarsi ovunque sia necessario che si applichi; ed è neutrale perché pur partecipando a tutte le funzioni, non si identifica e né si esaurisce in nessuna di esse. Lo stesso Crisafulli afferma che gli atti del potere neutro sono gli atti che noi consideriamo politici, e cioè: nomina dei Ministri, scioglimento della Camera, potere di grazia; sicchè – sempre Crisafulli – in tale teoria, sebbene ancora in forma embrionale è dato ravvisare un primo accenno ad una concezione del Governo come attività non già limitata ad una singola funzione statale, ma estendendosi nella sua azione e nella sua efficacia a tutte le forme e le attività dello Stato e pertanto non rientrando in alcuna delle funzioni dello Stato medesimo, ma rispetto a ciascuna di esse preminente.
Questa deviazione su Constant ha un senso sul discorso che si stava facendo perché la sua versione “Italian style” è stata recepita dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 1/2013. In questa sentenza ritroviamo tutti gli assunti fondamentali; infatti, in questa sentenza si afferma che il Capo dello Stato si colloca al di fuori dei tradizionali poteri dello Stato, al di sopra delle parti politiche e possiede delle competenze che incidono su ognuno di questi poteri allo scopo di salvaguardare sia lo loro separazione che il loro equilibrio; e quindi viene definito come organo di moderazione e di stimolo nei confronti degli altri poteri, nonché di persuasione; e queste attività sono attività informali che possono precedere o seguire l’attuazione, da parte degli altri organi costituzionali, di specifici provvedimenti, sia per saggiare la loro utilità, sia per verificarne la relazione tra i poteri dello Stato. Però attenzione, esiste anche un ordine informale tra questi poteri che integra una competenza a sé stante che costituiscono il cuore del ruolo presidenziale nella forma di governo italiana. Ritroviamo tutti gli assiomi della dottrina del potere neutro ai quali la Corte Costituzionale aggiunge un ultimo tassello: siccome si tratta di attività informali mediante le quali il Capo dello Stato saggia le opportunità e gli impatti costituzionali nei confronti dell’assetto complessivo del sistema, queste attività devono avere una garanzia di assoluta e totale riservatezza e non soggiacciono a nessuna pubblicazione dei relativi contenuti. Cosa si può dire di questa sentenza? Due notazioni critiche: molto spesso i costituzionalisti si scagliano gli uno contro gli altri l’accusa di costruttivismo interpretativo, ma in questo caso si attaglia benissimo alla sentenza della Corte Costituzionale perché in passato la Corte stessa ha chiaramente affermato che le norme che concernono le prerogative del Capo dello Stato – siccome costituiscono una eccezione al principio della parità di trattamento rispetto alla giurisdizione – hanno carattere eccezionale, e avendo carattere eccezionale devono essere provviste di una precisa copertura costituzionale; nell’ultima sentenza, invece, la Consulta ci dice che su questo tema la Costituzione è silente e non esiste nessuna disposizione che possa fondare positivamente questa norma di garanzia, cioè la garanzia dell’assoluta e totale riservatezza delle attività informali del Capo dello Stato; però se utilizziamo nell’insieme la teoria interpretativa del potere neutro non possiamo che accedere a questa conclusione: e questa è una chiara operazione di eccesso di costruttivismo interpretativo perché la norma non viene ricavata dal testo costituzionale. Intendiamoci, quando noi leggiamo i testi costituzionali è evidente che facciamo sempre riferimento agli orientamenti dogmatici e utilizziamo le dottrine che ci servono per selezionare le norme della Costituzione a fronte delle varie interpretazioni possibili; è chiaro che nelle attività interpretative viene versato qualcosa che nel testo costituzionale non c’è, ma la questione di fondo è capire se è possibile valutare delle norme solo ed esclusivamente sulla base delle dottrine? Perché in questo caso la norma di prerogativa è interamente ricavata dalla dottrina del potere neutro e viene sovrapposta al testo costituzionale; è la stessa Corte Costituzionale a dire che la stessa Costituzione non fornisce questa norma.
Seconda notazione critica. Ipotizziamo che il potere neutro sia inteso come funzione di garanzia, così come lascia intendere la Corte., leggendo in maniera completamente distorta la teoria di Constant. Se una attività informale è coperta da una garanzia di assoluta e totale riservatezza, noi come facciamo a sapere se questa attività informale sia effettivamente rispondente ad attività costituzionali? Seguendo l’impostazione della Corte, non riusciamo a verificare la correttezza della finalità perché viene a mancare la conoscenza della razionalità e della fondatezza, e ne consegue che l’intera attività del Capo dello Stato deve rimanere riservata. L’episodio di quando Monti ha mostrato in pubblico l’sms ricevuto dal Presidente Napolitano spiega bene che cosa consiste l’attività di informazione: in quel caso, il Capo dello Stato ha agito a garanzia della Costituzione, per realizzare una finalità costituzionale? Secondo la Corte, l’sms deve essere considerato un atto informale. E attenzione, gli atti informali si stanno avvicinando sempre di più agli atti formali.
La lettura che si vuole proporre è che questa teoria del potere neutro, che comprende il potere di adottare questi atti informali, sta mandando in soffitta la vecchia concezione polifunzionale della controfirma. Ed è qui il punto: la dottrina polifunzionale è, di fatto, superata perché questa teorizzazione del potere informale del Capo dello Stato è come se stesse riplasmando l’ordine formale delle competenze così come era stato ricostruito dalla dottrina polifunzionale.
Ma c’è di più; la Corte Costituzionale ha affermato che il Capo dello Stato è il supremo garante dell’equilibrio costituzionale. Ma il supremo garante dell’equilibrio costituzionale può essere parte di un conflitto di attribuzioni? E qualora possa essere parte, è mai pensabile che possa dare torto al Capo dello Stato e certificare che in quel caso non ha operato come supremo garante dell’equilibrio costituzionale? E’ paradossale. Ormai il Capo dello Stato utilizza i sui poteri informali di moderazione, persuasione ed influenza per indurre gli altri poteri a fare e non fare qualcosa. La questione del decreto legge sull’ILVA di Taranto è emblematica: ormai i decreti legge sembra che siano diventati atti complessi, perché questa corsia preferenziale che è stata riservata alle attività informali consente al Capo dello Stato di agire come vuole e in ogni direzione. Questo è quel che riguarda gli atti formalmente presidenziali e sostanzialmente governativi.
Prendiamo in considerazione gli atti presidenziali. Qui è evidente che è il Governo che può opporre il diniego; ma come fai ad opporre il diniego ad un atto sostanzialmente presidenziale espressamente qualificato come atto di garanzia? Un atto di garanzia ha una forza di legittimazione e una sacralità costituzionale che non puoi contrapporre a questa attività che già di per sé controlla un’altra attività di controllo; l’atto sostanzialmente presidenziale per eccellenza, ossia il potere di rinvio, non è più un atto di controllo, ma è diventato un atto politico e possiede quella simbiosi e quella contaminazione reciproca di cui si accennava in precedenza. Napolitano ha disposto un solo rinvio perché non ne ha bisogno: basta fare leva sull’art. 74 Cost. per negoziare prima con il Governo i contenuti della legislazione; ma nella forma di governo parlamentare, l’attività legislativa è diretta dal Governo e non, come è accaduto, dal Capo dello Stato. L’articolo 74 Cost. è diventata un’occasione per la compartecipazione sostanziale del Capo dello Stato all’attività legislativa. L’attività legislativa in Italia è chiaramente effetto di una triangolazione tra Governo-Parlamento-Presidente della Repubblica, e ciò che consente questa triangolazione è proprio la possibilità di attivare il potere di cui all’art. 74 Cost. che ha impresso una certa direzione e una certa prassi alla politica nazionale.
La conclusione è che si deve squarciare il velo delle mitologie e accedere alla tesi secondo cui il Capo dello Stato è un organo costituzionale come ogni altro senza nessun plusvalore politico. La proposta dogmatica è quella di rendere tutti gli atti presidenziali come atti complessi, perché la nostra forma di governo, purtroppo, non è una forma di governo adeguatamente razionalizzata. E qui sta il problema; il Capo dello Stato ha questi margini ampi di intervento che non può essere mascherato dal velo delle norme di garanzia, e che discende proprio dal fatto che la nostra forma di governo non è sufficientemente razionalizzata. Dunque o razionalizziamo la forma di governo e tagliamo le unghie al Capo dello Stato ridimensionandogli i poteri presidenziali o prendiamo atto che la nostra forma di governo è, in qualche modo, in una posizione intermedia rispetto ai sistemi parlamentari compiutamente razionalizzati e rispetto, ovviamente, ai sistemi presidenziali in cui manca un vero accentramento del potere di direzione politica.